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“La aspettiamo…” mi sento annunciare da una bella voce femminile, e provo una emozione incredibile, una emozione a sorpresa. Nella quarta puntata di questo diario avevo scritto: “Io ho un sesto senso che mi permette di cogliere la femminilità superiore non appena la incontro.
Mi suona nell’animo una specie di campanello, quelle rarissime volte che mi imbatto in una creatura femminile capace di valorizzare un “bravo omarello” e di porlo perfino al di sopra degli eroi…”. Se di fronte alla “Venere di Guimar” il campanello interiore che annuncia gli incontri con l’altro sesso per me più esaltanti e congeniali, aveva accennato a vibrare, questa volta suona forte come mai era successo nella mia vita: suona come campane a distesa udite sotto il campanile. Sbalordito ed ammaliato, come dal canto di una sirena, mi volto a guardare la creatura che mi ha dedicato un saluto così… musicale, coinvolgente e travolgente.
Vedo una bella morettina sui trent’anni, che mi lancia uno sguardo cordiale e vitalmente forte ma non ammiccante né seduttivo; una occhiata ferma e volitiva che conferma la frase pronunciata; una occhiata subito distolta dai miei occhi, che credo le appaiano inebetiti.
Questa bella donna volge senza indugio l’attenzione al suo lavoro al banco del bar, che riprende con solerzia e molta grazia; ammiro la scioltezza e la coordinazione dei suoi movimenti, che denotano una totale sicurezza di sé e una rara armonia interiore. E devo farmi forza per smettere di scrutare quella bella persona, uno sforzo notevole. Ma vedete, in me la dignità è una pulsione fortissima, e la razionalità pure: so bene che non posso assecondare la mia voglia di contemplare a lungo una donna che potrebbe essere mia figlia e che ancora non mi conosce, e so pure che con il solo sguardo non riuscirò a carpire il suo segreto, ovvero: “che virtù racchiude questa donna, che è in grado di emozionare e di coinvolgere con poche sillabe, un uomo temprato dagli anni e dalle sofferenze?” “Scoprirò il tuo segreto”, mi dico, e riesco a voltarmi e a proseguire il cammino.
Terminata la perlustrazione giornaliera di Puerto de la Cruz, torno a Santa Cruz in corriera come sempre. Ed anche questa volta il viaggio in “guagua” mi stimola la riflessione e mi illumina. Perché quella bella bruna mi aspetta? La spiegazione logica è una sola: il cameriere che mi aveva servito il caffè, dopo aver conversato con me si era ritirato nella parte interna del ristorante, dove si trovava la sua padroncina; le aveva senz’altro raccontato le confidenze che avevo fatto a lui, con particolare riguardo al mio progetto di stabilirmi al Puerto dopo qualche mese.
La padroncina del ristorante Amanusa ha dunque fatto con me, soltanto il suo dovere di brava ristoratrice, che sa promuovere il proprio locale ed invita i clienti educati a ritornarvi. Ma questa evidenza razionale non è per me una delusione, perché anche se non ho più Claudia e sono tornato un uomo del tutto libero, non potrei interessarmi né sentimentalmente né in senso avventuroso a una donna che potrebbe essere mia figlia: me lo impediscono il buon gusto e valutazioni razionali di opportunità; l’esperienza di vita inoltre mi insegna che le ristoratrici di medio od alto livello, non sono mai sole, ma sempre sposate o stabilmente accompagnate, perché la loro professione non è gestibile in solitudine.
Il viaggio in guagua mi induce ancora a pensare: in che cosa consiste il fascino di quella creatura, una attrattiva che riesce a sgorgare anche da una frase di circostanza? Mi do una risposta: quella giovane donna ha il garbo e la classe della Beatrice di Dante (“tanto gentile e tanto onesta pare”) abbinati alla spontaneità delle generazioni successive alla mia. Noi, nati negli anni cinquanta, siamo stati l’ultima generazione forte in Italia: strenui lottatori, e da noi sono usciti purtroppo anche i terroristi ma non i drogati (alludo a fenomeni di massa e non a casi singoli).
In un tratto soltanto la generazione successiva ci ha battuto: la spontaneità del comportamento, quella spontaneità che ammiriamo ed invidiamo perché noi non la abbiamo avuta da giovani, né tanto meno la abbiamo ora da vecchi. Lady Amanusa dunque realizza un binomio che parrebbe impossibile: è una Beatrice dantesca sciolta, disinvolta ed immediata; ed è una ragazza d’oggi con la classe di Beatrice. Tuttavia, sento che questa chiave di lettura non risolve ancora in pieno l’enigma del fascino esplosivo della bella lady, e non mi sbaglio: sarà il tempo a dirmi quali altre componenti deliziose contiene questa personalità femminile, che è come un cocktail inebriante…
Sarà il tempo a rivelarmi che questa donna è sarda, ed io per le donne sarde ho sempre avuto una predilezione. Normalmente le persone intelligenti e di buon gusto che conoscono il nostro popolo, riconoscono alle gentildonne sarde un tratto di dignità nel comportamento, una nobiltà che non ha eguali in Italia. E a me questa caratteristica parla in un modo speciale. Perché vedete, sardo è il mio cognome, e sardi sono i miei antenati paterni.
Io sono nato a Bologna da madre bolognese, ma in me l’eredità biologica del ceppo sardo prevale di gran lunga su quella emiliana. Io sono cresciuto nella città felsinea, per gran parte del tempo in casa dei nonni bolognesi, in un ambiente in cui non ho incontrato nulla della cultura sarda; ma a sorpresa è venuto fuori un tipo più sardo che emiliano.
L’esistenza di una genetica psicologica non è mai stata dimostrata, tuttavia può essere una opinione personale, ed io non posso non crederci, perché ne sono io stesso a me stesso una prova. I miei lettori sopporteranno ancora un po’: l’omarello che scrive questo diario è di una ignoranza abissale, ed insieme agli altri ignoranti con i quali interagisce, trasforma la scienza in rappresentazione sociale, come gli ignoranti hanno sempre fatto.
Per cui, eccovi la LEGGE DI MENDEL secondo l’omarello, e adattata alla vita dell’omarello: esistono i caratteri dominanti e i caratteri recessivi. Quando una razza forte come quella sarda (i sardi non li ha mai piegati nessuno) si incrocia con una razza debole come quella emiliana (gli emiliani sono sempre stati sottomessi da tutti), i caratteri della razza sarda sono quelli dominanti, che vengono trasmessi geneticamente, mentre quelli emiliani sono più deboli ovvero recessivi, e vanno a puttane. Tutte le volte che si incrociano tipi umani sardi con esemplari emiliani, salta fuori un bambino con la faccia sarda, non emiliana (io non faccio eccezione). Per me che credo pure nella genetica psicologica, avviene lo stesso fenomeno per le caratteristiche mentali dell’individuo, e l’ambiente può incidere ben poco sui tratti fondamentali. Dunque, per dirla con i romanzieri deteriori, Lady Amanusa ha evocato in me la voce del sangue, ed il rimpianto per la mia Patria mancata: l’attrazione per la Sardegna mi cova infatti nell’animo in profondità, come un archetipo junghiano che la bella lady sa far emergere dal profondo, riuscendovi pure con uno stimolo soltanto.
Vi è un ulteriore motivo che determina il fascino irresistibile della Lady sarda, ed anche questo mi sarebbe diventato chiaro più avanti, quando sarei tornato stabilmente al Puerto e sarei divenuto un cliente abituale del caffè Amanusa. Ne discorreremo in una prossima puntata se non vi sarete stancati di seguirmi e se la mia editrice Bina Bianchini (la quale, quanto a classe e a levatura mentale, non è seconda a nessuna delle alte figure femminili che io tratteggio) continuerà a darmi carta bianca, come me la sta dando il direttore Franco Leonardi.
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Torno dunque a Santa Cruz, ed il giorno successivo, essendo l’ultimo della mia permanenza a Tenerife, è dedicato a fare i bagagli e a catturare le ultime immagini della capitale e ad immagazzinarle nella memoria, perché Santa è una città per me suggestiva come poche, affascinante, che ho preso veramente ad amare in questi sedici giorni di vacanza-sopralluogo: se ho preferito Puerto come destinazione per la mia vita futura, è pure vero che tra i pregi di Puerto de la Cruz vi è anche quello di essere assai vicina a Santa Cruz.
(Continua)
di Davide Selis