Personalmente sono allergica alla televisione. Soprattutto ai contenitori di speranzosi concorrenti disposti a farsi umiliare sorridendo per un contratto con una casa discografica, un lavoro da cuoco, un viaggio gratis dalla nuova categoria televisiva: i giudici.
Usare la stessa parola per definire Falcone e Borsellino e la banda di analfabeti che genera una tensione da thriller letteralmente attorno al nulla, da di per sé la misura di un tempo buono per rifare senatore il cavallo di Caligola.
Tuttavia, proprio proprio dall’unico programma della categoria -“esito a sorpresa con campione”- che vedo a salti ogni paio d’anni, ho tratto un’informazione che mi ha dato speranza in un momento in cui diciamocelo, ce n’è tanto bisogno.
Fra tutti i contenitori di spazzatura televisiva omologata, X Factor si distingue secondo me per il particolare che offre nelle prime selezioni un campionario dei giovani del nostro tempo.
Arrivano lì con i vestiti di casa, le chitarre di poco costo, le parole scritte in cameretta e descrivono il mondo come a loro arriva, come sono capaci di decifrarlo abbassando la barriera che rende difficile per una generazione capire dal di dentro la successiva.
Mano mano che le smorfiette e le baruffe dei giudici li scremano e li consegnano al giudizio misto dei voti di pacchetti delle case discografiche e di quelli del pubblico a casa, emerge un altro dato molto interessante: cosa il pubblico è disposto a comprare e cosa le case discografiche sono disposte a vendere.
L’identikit dei semi che riescono a fiorire sul terreno inospitale di un paese specializzato nel mandare Cristoforo Colombo a scoprire l’America per qualcun altro.
La variazione percepita negli anni è stata la seguente: la prima generazione dei ragazzi di X Factor rappresentava l’esplosione del modello “social” di una gioventù passata senza soluzione di continuità dai videogiochi ai social media che pativa la perdita degli oratori, delle piazze, dei palloni, delle sere a dividersi un panino su un muretto, lo mostrava in una estenuante ricerca di plasmarsi su un modello che già avesse avuto successo, senza creare nulla di nuovo e di significativo.
Nella fase intermedia, ho visto i ragazzi percepire come animaletti la pioggia in arrivo, li ho visti diventare fragili, nevrotici, passare per un nuovo esistenzialismo e cercare di muoversi al buio, definire tutte le forme possibili dell’angoscia, della rabbia, della solitudine non solo loro, ma anche delle famiglie disfunzionali dalle quali venivano.
Nelle parole come nei generi musicali analizzati, emergeva la vita di genitori che cercano di mettere insieme il pranzo con la cena e che raramente si siedono a tavola con i figli perché la nuova trovata geniale dei “TURNI” rende impossibile avere qualsiasi tipo di routine, ossia, rende impossibile creare qualsiasi struttura solida nel privato plasmato sempre e solo sugli avanzi casuali di tempo, di un lavoro mal pagato.
La seconda generazione di ragazzi di X Factor, era la generazione dei figli dei contratti senza paracadute e della fine del sogno che i sindacati giocassero in squadra con i lavoratori.
Quest’anno ho visto fare capolino la terza generazione e ho provato un forte senso di sollievo perché ho iniziato a rispondere molto timidamente alla domanda che mi faccio da quando tutti, consapevoli o no, viviamo nel buio del mondo di Mario Draghi e di Bill Gates, del feto deforme dell’Unione Europea e di un’America nata sul più brutale genocidio della storia che ha buttato la maschera di Rin Tin Tin e sta mostrando la sua faccia vera.
Sono e resto sicura che anche questa era così grigia farà la fine di tutte le altre: finirà e lascerà un’umanità capace e disposta per un poco di tempo a comportarsi meglio.
La banda di psicopatici che scrive le regole del mondo tramonterà come tutti i pazzi e gli assassini prima, ma la domanda che un po’ tutti ci facciamo è quando tutto questo finirà.
Nella terza generazione di X Factor ho visto i segnali di quel quando.
Oltre all’assenza assoluta di aspiranti veline e Rocco Siffredi, ho notato il crollo della disperazione urbana, ancora presente ma come la risacca di un’onda che va via.
E’ comparsa invece una vena importante di ragazzi che non hanno paura, che sono tornati ai testi e la musica su cui siamo cresciuti noi ma non per scimmiottare Peter Gabriel o Annie Lennox.
Questi ragazzi, leggono, conoscono i classici della musica e persino la musica classica, distruggono i miti del nostro tempo per fare dalle piramidi sabbia e dalla sabbia mattoni per nuove architetture e, cosa molto importante, sono creature riflessive e relazionali.
Relazionali, è la vera parola che ha odore di guai in arrivo per i teorici dell’uomo solo davanti a un potere onnipresente e senza indirizzo certo.
Per ora questi ragazzi hanno competenze tecniche, non solo ambizioni, hanno trovato una formula per l’allegria pur nella consapevolezza dei connotati dell’era in cui gli è toccato avere vent’anni.
Singolarmente, i giganti delle case discografiche lo hanno intuito e lasciato succedere.
E parliamo di gente che sa cosa cerca la maggioranza del pubblico-cliente.
La vincitrice di quest’anno è un prototipo perfetto della terza generazione di cui parlo.
Il suo nome d’arte è Sarafine e ha spaziato dal genere di Gabriella Ferri, al Jazz, addirittura alla lirica, fino ai Beatles reinterpretando tutto in chiave tecno.
Compone, arrangia, produce, interpreta la sua musica ed è un giovane professionista completo.
L’aspetto un poco mascolino unito alla delicatezza delle riflessioni dei suoi testi non ha nulla a che vedere con la “fluidità di genere” di cui credo abbiamo un po’ tutti le tasche piene.
E’ una formula che va oltre le tette su Instagram, oltre la rinuncia alla gioia, oltre all’enfasi controproducente che circonda il semplice diritto di amare chi vuoi.
Va oltre la sicurezza nell’omologazione e l’appiattimento delle diversità che rendono forti in favore dell’esaltazione delle diversità che rendono fragili.
Non le contesta, non le attraversa, è la stagione “dopo”.
Nega il prototipo della diva da social media ma non spegne la dolcezza della gioventù pur nella produzione di una musica molto forte, vitale, gioiosa, violenta come è violenta la gioventù quando spacca tutto e si sceglie i colori del mondo senza chiedere permesso.
Nonostante le illusioni dei dittatori e dei mitomani di ogni tempo, la radice dell’esser umano è come quelle piante rampicanti che per quanto le tagli camminano sotto terra e fanno capolino dall’altra parte della recinzione.
E’ appena uscito un bruttissimo film con Julia Roberts, si intitola “lasciarsi il mondo alle spalle” e sostiene la tesi che di fronte al disastro, la piccolezza delle nostre anime rattrappite dall’egoismo ci porterà a cercare scantinati in cui ancora si vede la televisione mentre attorno a noi il mondo si disgrega.
Oltre che noioso, credo che sia anche un film che non centra l’obiettivo.
E’ la visione degli adulti colpevoli di aver sciupato in 50 anni 500 anni di cammino verso la libertà.
Adulti che tentano, per salvare la faccia, di dare alla loro pessima performance agli occhi della storia, la caratteristica di un male inevitabile.
E invece no.
Sarafine definisce “malati di gioia” i ragazzi come lei che puntano con decisione all’allegria sana e ai valori sani, nonostante la spinta a non credere più in niente dei miliardari americani come Julia Roberts.
Probabilmente è il momento giusto per lasciare che delle nostre piramidi resti solo la sabbia e con quella sabbia si facciano nuovi e diversi castelli.
Stanno emergendo ragazzi capaci e determinati a farlo e questo vuol dire che il futuro non si vede ancora ma è già dietro l’angolo.
Buon 2024 a tutti allora, passiamolo come in un palco a teatro, passiamolo ascoltando lo scalpiccio di una gioventù che sta mettendo le foglie e rinverdirà il grigio panorama della nostra generazione apatica, amareggiata, attonita e, diciamolo, sconfitta dal sistema di cose che ha creato.
Personalmente, guardo con grande simpatia e interesse ai flussi nuovi di creatività e di pensiero che spero siano capaci di spiazzare i cecchini, di attraversare il filo spinato, di guadare il pantano dei burocrati spocchiosi e fondare un nuovo tipo umano e con esso, quel futuro che oggi, anche sforzandoci, possiamo immaginare ma non vedere perché, per vederlo, bisogna avere vent’anni, in tutti i sensi.
Claudia Maria Sini