Cari lettori, il cataclisma politico esploso in Francia – Paese che conosco bene e che parlandone la lingua seguo da vicino da anni – mi ha convinto a rimandare la seconda parte delle riflessioni sui “Moralismi e convenienze”, dando la precedenza ai drammatici eventi in questa nazione confinante con le nostre di provenienza e di residenza ed architrave dell’Unione Europea che delle difficoltà della Francia risentirà pesantemente, con a rimorchio tutti noi che volenti o nolenti ne facciamo parte.
La slavina istituzionale è iniziata domenica 9 giugno con il voto per il parlamento europeo in cui il Rassemblement National o RN, sprezzantemente marchiato “di estrema destra” dagli avversari e da tempo guidato da Marine Le Pen – ma che nell’occasione proponeva come candidato di punta il 28enne astro nascente Jordan Bardella – realizzò un’imponente avanzata conquistando 30 seggi e quasi il 32% dei voti, mentre ne uscirono con le ossa rotte Renaissance (Rinascimento) del presidente Emmanuel Macron e la sinistra moderata ed estrema.
A questo inatteso risultato, di per sé sufficiente a scompigliare la Francia per gli opposti motivi dell’esultanza del RN per la storica affermazione e dell’allarme per l’asserito “ritorno del fascismo” insistentemente prospettato da tutti gli sconfitti, si aggiunse qualche ora dopo l’ancora più stupefacente colpo di scena dello scioglimento del parlamento nazionale deciso – senza esservi obbligato – dal presidente Macron, che fissava al 30 giugno il primo ed al 7 luglio il secondo dei due turni elettorali, quest’ultimo poi rivelatosi determinante come vedremo tra poco.
A tutt’oggi anche ai commentatori francesi sfugge la logica di quest’iniziativa del presidente, il cui blocco centrista, duramente sconfitto nella votazione europea, avrebbe prevedibilmente subito la stessa sorte anche nell’elezione nazionale del 30 giugno, come infatti avvenne attirando su Macron le aspre critiche dei suoi stessi militanti e alleati.
Qui permettetemi una digressione sulla sfera privata del presidente, apparentemente disgiunta dalla vicenda politica ma interessante per inquadrarne la personalità, perché anche chi svolge funzioni di tanta responsabilità è un essere umano con pregi, difetti e debolezze.
Emmanuel Macron, nato nel 1977, nel 1993 aveva 16 anni ed era studente liceale; una sua professoressa era Brigitte Trogneux, allora quarantenne (quindi più vecchia di 24 anni del suo allievo) e sposata con l’impiegato di banca André-Louis Auzière da cui aveva avuto tre figli.
L’attrazione irresistibile scattata tra la matura professoressa e il suo alunno adolescente suscitò scalpore nella cittadina di Amiens dove risiedevano; i genitori di Emmanuel si astennero dalla denuncia per corruzione di minorenne, forse per non accrescere lo scandalo con un processo, limitandosi a far cambiare scuola al ragazzo, ma quando Emmanuel divenne maggiorenne il diciottenne e la quarantaduenne riallacciarono la relazione.
La loro storia d’amore fu coronata dal matrimonio nel 2007, quando lui, ormai lanciato nella carriera di tecnocrate bancario internazionale, aveva 30 anni e lei, divorziata dal marito, ne aveva 54; oggi lui ne ha 46 e lei 70, e il giovanile Monsieur le Président e l’anziana Première Dame compaiono spesso insieme in occasioni private e ufficiali.
Su quest’unione statisticamente inusuale sono stati scritti fiumi d’inchiostro e molte malignità sulle motivazioni di entrambi, che chi vuole potrà cercare; chiusa la parentesi sulla personalità del presidente, per il quale apparentemente le decisioni sopra le righe sono una costante esistenziale, torno alle convulsioni istituzionali in cui il suo sconcertante scioglimento del parlamento ha precipitato il Paese.
Da lunedì 10 giugno a domenica 30, data del primo turno elettorale, la Francia fu incendiata da una bufera di dibattiti e dichiarazioni, torcendosi tra l’euforia del RN per la vittoria storica e il timore di tutti gli altri partiti di un’altra sua spettacolare avanzata, che infatti il 30 giugno il RN realizzò accaparrandosi – assieme ad una pattuglia di dissidenti dai moderati di destra dei Républicains – oltre il 33% dei voti, seguito a 5 punti di distanza dal variegato cartello delle sinistre, frettolosamente raffazzonato col nome di Nuovo Fronte Popolare (NFP) “per arginare il fascismo”, mentre il centro presidenziale subiva un’altra cocente disfatta.
Nel secondo e decisivo turno del 7 luglio dunque si profilava l’affermazione definitiva del RN, che alcuni commentatori predicevano addirittura in maggioranza assoluta, del resto invocata esplicitamente dagli stessi Bardella e Le Pen “per rinnovare la Francia”.
Il panico per l’incombente vittoria del RN, in quei giorni incessantemente testimoniato nei media, indusse tutti gli sconfitti nel primo turno a coalizzarsi nel “barrage” o “diga antifascista” sfruttando una particolarità della legge elettorale francese, per cui nei collegi elettorali dove nel primo turno nessun candidato ha raggiunto la maggioranza assoluta si terrà un secondo turno di ballottaggio fra i concorrenti che nel turno precedente abbiano conseguito almeno il 12,50% dei voti; il “barrage” anti-RN pattuito tra tutti gli altri partiti consisteva nei “désistements”, cioè nel ritirare dal ballottaggio i loro candidati classificati in 3° o 4° posizione nel primo turno, per impedire l’elezione del candidato del RN dirottando tutti gli altri voti sul suo avversario meglio piazzato in ogni collegio, anche se normalmente politicamente incompatibile.
A questo punto mi pare inevitabile una riflessione: è plausibile che i quasi 9 milioni e mezzo di elettori francesi che il 30 giugno scelsero il RN fossero diventati dalla sera alla mattina pericolosi estremisti fascisti da ostracizzare in tutti i modi… o quel voto aveva avuto altri motivi…?
La logica mi suggerisce che non si trattò di un improvviso e simultaneo “rigurgito di fascismo” di tanti milioni di votanti, come furbescamente sostenevano tutti i perdenti per suscitare allarme, bensì della manifestazione di una diffusa insofferenza contro l’immigrazione clandestina, la delinquenza imperante, il peggioramento della qualità della vita e la perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione, innescata inizialmente dalle difficoltà di approvvigionamento durante la “pandemia” e poi aggravata dai rincari di gas e petrolio e dalle dissennate politiche economiche attuate dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
Ricordo tra l’altro, nelle settimane immediatamente precedenti il voto europeo del 9 giugno, le quasi quotidiane sconcertanti affermazioni di Macron di voler mandare l’esercito francese a combattere in Ucraina, per di più nell’imminenza dello scabroso impegno dell’Olimpiade parigina… e cosa ne avranno pensato i francesi…?
Davvero un personaggio che se credessi nei temi astrali mi sembrerebbe predestinato a continue quanto cocciute e irragionevoli ostinazioni.
Del resto per qualche motivo i politici di tutti i colori, dal centrodestra all’estrema sinistra, nonostante i coincidenti risultati del 9 e 30 giugno e del 7 luglio si rifiutarono, e ancora si rifiutano, di riconoscere questo profondo scontento, vera causa del successo del RN, lanciando invece stridenti quanto semplicistici ululati di mobilitazione contro il “fascismo” e appelli ai votanti a sgominarlo.
E anche mi stupisce che non capiscano, o facciano finta di non capire, che restando purtroppo irrisolti quei problemi il “cordone sanitario” avrà l’effetto opposto a quello desiderato…
Come milioni di francesi trascorsi il pomeriggio di domenica 7 luglio davanti alla tv in attesa impaziente delle 20, quando appena chiusi i seggi sarebbe stata comunicata la proiezione del risultato del decisivo secondo turno.
Il Rassemblement National avrebbe realmente ottenuto la maggioranza assoluta nonostante il “barrage” …?
E se invece avesse conseguito solo una maggioranza relativa, con chi avrebbe voluto o potuto allearsi per governare…?
Nessun’altra ipotesi era considerata dai commentatori, ma alle 20:01 ecco lo stupefacente coup de théâtre: i désistements della “diga antifascista” avevano dirottato al Nuovo Fronte Popolare la maggioranza dei seggi, seguito dal blocco macronista, mentre per il complesso meccanismo dei désistements il Rassemblement National si classificava solo al terzo posto in seggi PUR ESSENDO DI GRAN LUNGA IL PARTITO PIÙ VOTATO; comunque sia, nessuno dei 3 blocchi nemmeno sfiorava la maggioranza assoluta.
Assistetti subito dopo – con un sorrisetto ironico, lo confesso – al giubilo del cartello delle sinistre per aver sconfitto il “ritorno del fascismo”, tra cui mi impressionò la declamatoria arringa con cui Jean-Luc Mélenchon – oratore abilissimo e travolgente che già conoscevo da precedenti campagne elettorali e capo della France Insoumise (la Francia Ribelle), il partito di estremissima sinistra che assieme agli Écologistes di Marine Tondelier, al Parti Communiste di Fabien Roussel ed al Parti Socialiste di Olivier Faure costituiva il Nouveau Front Populaire – reclamò perentoriamente l’attuazione di “rien que le programme, mais TOUT le programme!” (nient’altro che il programma, ma TUTTO il programma!) del Fronte Popolare.
Quel mio sorrisetto ironico era motivato dalla previsione, puntualmente verificatasi, di lunghe e paralizzanti lotte intestine per la supremazia tra i 4 partitini del cartello appena smaltita la sbornia dell’entusiasmo; e sebbene fra tutti e 4 i partitini il Fronte Popolare avesse conseguito solo 182 seggi, quindi ben lontano dalla maggioranza di 289, mi faceva ridacchiare l’ostinatamente reiterata pretesa di Mélenchon di volere a tutti i costi governare e attuare – anche a colpi di decreto, come permette la Costituzione – “tout le programme” della sinistra, tra cui ovviamente una pesante imposta patrimoniale… ma per facilitarvi la comprensione di ciò che accadrà devo spiegarvi alcune particolarità dell’architettura istituzionale francese:
* Il parlamento comprende 577 seggi, per cui la maggioranza si situa a quota 289.
- Secondo la prassi il partito vincitore propone al presidente il candidato a guidare il governo, ma resta facoltà discrezionale del presidente recepire o meno il suggerimento.
- La sera del 23, dopo 16 giorni di trattative tra i 4 partitini e due candidature abortite per veti reciproci tra loro, un’ora prima dell’annunciato discorso olimpico di Macron il NFP ha cercato di forzargli la mano proponendo alla guida del governo il minimissimo comun denominatore dell’ex alta burocrate statale Lucie Castets, oggi direttrice delle finanze e degli acquisti del Comune di Parigi per nomina della sindaca socialista Annie Hidalgo, però subito dopo bocciata da Macron, che ha anche rinviato a dopo Ferragosto la nomina del primo ministro.
- Per il designato dal presidente formare il governo sarà comunque un’impresa ardua, perché nell’unica coalizione aritmeticamente plausibile, cioè quella tra il NFP e la Renaissance di Macron, si scontrerebbero esigenze politiche ed economiche opposte.
- La contrarietà ad un governo di centrosinistra comprendente la France Insoumise, manifestata giorni fa da alcuni esponenti di Renaissance, presupporrebbe la spaccatura del NFP tra governo e opposizione e l’allargamento della maggioranza alla riluttante destra moderata dei Républicains… ipotesi graditissima a Macron, che cacciato dalla porta delle urne rientrerebbe dalla finestra delle alchimie negoziali, ma ovviamente inaccettabile per l’estrema sinistra.
- La questione potrebbe andare per le lunghe e intanto resterà in carica ad interim, senza limiti di tempo, il governo del primo ministro Gabriel Attal, probabile candidato centrista alla presidenza nel 2027 dato che Macron non potrà ripresentarsi.
- Però in Francia un nuovo governo NON è tenuto a ottenere preliminarmente la fiducia del parlamento, bensì inizia direttamente a governare fino a quando un’eventuale mozione di sfiducia (con almeno 289 voti su 577) lo rovesci.
- In casi ritenuti particolarmente importanti il governo può legiferare per decreto senza voto parlamentare, come vorrebbe e abuserebbe Mélenchon, salvo qualora una mozione di sfiducia poi faccia cadere decreto e governo; ed essendo il parlamento diviso in tre blocchi, tutti minoritari ma reciprocamente aspramente ostili, due qualsiasi dei quali però volentieri convergerebbero in una mozione di sfiducia per far cadere il governo di minoranza del terzo qualunque esso sia, l’imboscata sarebbe sempre dietro l’angolo.
* E infine – ciliegina tossica sull’immangiabile torta – comunque vada la trattativa, governo o non governo, sfiducia o non sfiducia, per sciogliere il nodo nemmeno si può tornare subito al voto, perché quest’ingestibile parlamento appena eletto non potrà essere sciolto per un anno…! così detta la Costituzione.
Al 25 luglio, data in cui devo consegnare l’articolo perché il giornale deve andare in stampa, ormai tutti urlano contro tutti in un’inintelligibile cacofonia, accusandosi reciprocamente con estrema violenza – per ora solo verbale, ma gli animi sono accesissimi – di slealtà e prevaricazione: il Rassemblement National perché il 19 luglio una riedizione del “cordon sanitaire” di macronisti e sinistre l’ha escluso da tutte le presidenze e le funzioni cruciali delle commissioni parlamentari, ed il Nouveau Front Populaire che proclamandosi vincitore esige da Macron la designazione di Castets a prima ministra; e la destra ma ora anche la sinistra, immemore del regalo elettorale appena ricevuto, reclamano pressantemente le dimissioni – già escluse da Macron – del presidente apprendista stregone, le cui sconcertanti iniziative hanno sprigionato dalla lampada un diabolico e devastante mostro di ingovernabilità, che come ripetono desolatamente tutti i giorni i media francesi nessuno ha la più pallida idea di come imbrigliare. Probabilmente assisteremo alle puntate più “divertenti” della tragicommedia dopo l’estate, quando Macron non potrà più rinviare la designazione e incomberanno inesorabilmente l’approvazione del bilancio del 2025 e il probabile avvio di una procedura per deficit eccessivo contro la Francia, già ammonita a giugno dalla Commissione europea.
Ne riparleremo.
Francesco D’Alessandro