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    Partiti al mondo come impiegati e non ancora tornati

    La famiglia ai tempi dello smart working e della flessibilità.

    Non me ne vorrà De Gregori se mi permetto di parafrasare la sua bellissima canzone, “Generale”.

    Da madre di figli sparsi per il mondo, nipoti lontani, feste comandate in videochiamata da un lato all’altro dell’oceano, mi sono soffermata giorni or sono su un brano bellissimo delle “lettere a Lucilio“ di Seneca.

    La modernità di Seneca mi colpisce sempre, ma, nella lettura a cui mi riferisco, mi ha lasciato davvero basita.

    Fa riferimento infatti, a come la smania di viaggiare da un posto a un altro che caratterizzava sia i soldati di lungo corso che i giovani di buona famiglia, facesse sì che andassero perdute pietre miliari della struttura di un cittadino forte, di una cittadinanza forte, fatta di persone moralmente forti.

    Riflette sulla differenza fra un eterno arrivare e tornare e il saper restare, creare radici, tessere tele fitte di relazioni di intimità e fiducia durature, catene umane che ci rendono più forti di ciò che possiamo essere se ci percepiamo come individui isolati dal contesto che ci circonda, vuoi perché siamo appena arrivati, vuoi perché siamo appena tornati. 

    In un caso non siamo ancora parte del tutto, nell’altro non lo siamo più. 

    In entrambi, non possiamo contare che su noi stessi ma, molto più grave, non apportiamo nulla alle sinergie del luogo in cui viviamo e al suo corpo sociale.


    E qui siamo arrivati al punto.

    Seneca vede, nell’assenza di legame intimo e non negoziabile fra lo spirito del giovane romano e l’Urbe, i segnali del crollo imminente della Dea Roma.

    E’ delizioso leggere la sua descrizione di giovani che rifiutano senza saper costruire, orgogliosi delle barbe lunghe, della scarsa igiene personale, del caos di raduni di poeti improvvisati che leggono per giorni interi, in happenings alla Woodstock, versi senza rigore sintattico.

    Impossibile non  pensare ad un ’68 del primo secolo dopo Cristo.

    Un momento in cui, l’inadeguatezza dei valori su cui si era fondata Roma, quella grande, era stata percepita ma non sostituita con valori che avessero la stessa forza, e magari radici affondate nel nuovo senso della vita dei bisnipoti di Romolo e di Cesare.

    Sembra davvero di leggere un Pasolini -però pacato e tranquillo- che descrive le conseguenze ultime dell’aver sostituito Carosello alla messa in latino.

    Cosa c’entra questo con i nostri figli che nascono in Italia, studiano in Inghilterra, fanno il master in Irlanda, lavorano due anni negli Stati Uniti, si specializzano a Berlino, e quando tornano con una fidanzata giapponese non sanno più il nome delle strade della loro città?

    C’entra moltissimo in realtà. 

    L’analisi di Seneca, riguardo agli esiti di sviluppare la propria personalità nel passaggio da bimbo a uomo saltando da un contesto all’altro, è più che mai valida.

    L’esito di questa cessione senza condizioni dei nostri ragazzi a un mondo che li vuole internazionali e versatili, poliglotti e intraprendenti, è la loro non appartenenza a nessuna causa morale più alta di ciò che guadagnano e possono spendere.

    E’ il loro distacco dalla cronaca politica dei diversi paesi fra i quali rimbalzano come palline di gomma.

    E’ la loro impossibilità di creare valori non negoziabili, perni di appartenenza non negoziabili, pilastri culturali non negoziabili.

    E’ il loro essere in sintesi, negoziabili.

    E’ assenza di appartenenza a una personalità collettiva più forte di una personalità singola e più ampia del tempo di una vita sola.

    Sono più preparati alla partita della vita di quanto lo fossimo noi, ma alla fine dei giochi molto più facili da battere di quanto non lo fossimo noi.

    Perché? 

    Perché crescono come i bonsai cui si intreccia il tronco quando sono ancora teneri abbastanza e poi, per quanto possano crescere con grinta, con rabbia, con energia, con capacità ammirevoli, crescono rispettando, senza saperlo, lo schema di ingegneria sociale studiato per renderli utilissimi alla salute di un sistema, che di loro come persone, se ne frega.

    I 500 mi piace alle frasi di sostegno che noi mamme ci scambiamo sui social quando pubblichiamo le loro foto all’aeroporto, corredate di toccanti frasi sullo stile, “vola alto figlio mio, vai lontano”, a questo punto, credo che, con ragione, saranno oggetto di studio da parte dei posteri.

    Passato il ciclone, che con l’incoscienza dei moscerini dell’abat-jour stiamo vedendo arrivare come se fosse una pioggia d’aprile, qualcuno si chiederà perché abbiamo la vista corta e ci assicuriamo che i nostri ragazzi tornino poco a casa ma guadagnino bene, perché li consegnamo a colpi di rette milionarie a un sistema di formazione che li vuole nomadi e incapaci di creare tribù di sostegno.

    Personalmente sto iniziando a riflettere su questa domanda che mi riguarda, insieme a una moltitudine di altri genitori dalle case vuote di giovinezza e di discendenza morale. 

    Sto cercando una risposta e una alternativa, sto pensando che altra soluzione possiamo trovare oltre al garantire ad ogni costo una “posizione“ ai nostri ragazzi.

    Mi chiedo e vi chiedo, se anziché puntare su ciò su cui abbiamo puntato per garantire loro un futuro, avessimo puntato sull’addestramento alla coesione e sullo spirito di comunità, forse, dico forse, il loro futuro oggi sarebbe meno in pericolo? 

    In mancanza di una risposta che non ho ancora trovato, lascio qui la domanda perché credo che sia assolutamente necessario trovarle una risposta per dare una chance di rinascita alla nostra era ai titoli di coda.

    Claudia Maria Sini

     

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