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    Considerazioni sulla prossima presidenza di Trump

    Ad appena due settimane dall’assunzione dei poteri del binomio presidenziale Trump – Vance molti si chiedono quanto ampia sarà la virata politica ed economica degli Stati Uniti, tuttora il Paese più potente e ricco del mondo, e in che misura le decisioni del loro presidente, costituzionalmente dotato di estesi poteri e quindi fondatamente ritenuto l’uomo più influente del pianeta, incideranno sull’esistenza quotidiana e sul tenore di vita di tutti noi; e tra queste decisioni naturalmente avranno un peso rilevante gli orientamenti economici, ai quali in questo commento dirigerò principalmente la mia attenzione. 

    A questo riguardo vorrei iniziare l’analisi parlando, prima ancora che dell’arcinoto Trump, di qualche collaboratore da lui scelto come coadiutore nella cruciale implementazione delle sue politiche, tra i quali un ruolo fondamentale spetterà al Segretario al Tesoro, che da noi chiameremmo il ministro dell’economia. 

    Trump ha scelto come successore dell’attuale Segretaria al Tesoro Janet Yellen, già governatrice della Banca centrale statunitense (la Federal Reserve) durante la presidenza di Obama, il miliardario Scott Bessent, gestore di fondi d’investimento e generoso finanziatore della campagna elettorale del presidente neoeletto. 

    In un’intervista televisiva dello scorso agosto, di cui mentre scrivo ascolto i punti salienti, Bessent ha esplicitato alcune elementi chiave del suo progetto economico, semplificato come piace agli americani in una regoletta denominata “del 3-3-3”, ossia: 1) espansione dell’economia statunitense al ritmo del 3% annuo, da realizzare attuando un’ampia deregolamentazione, aumentando la produzione nazionale di energia, contenendo l’inflazione, assumendo come motore dell’economia non più la spesa pubblica ma l’imprenditoria privata, e in generale infondendo un clima di fiducia che incoraggi la popolazione a investire in un presente e in un futuro migliori; 2) ridurre al 3% il deficit pubblico, attualmente oscillante tra il 6 e il 7%. 

    Da notare che essendo la diminuzione delle imposte, di cui parlerò tra poco, uno dei pilastri della politica economica di Trump, se a questo alleggerimento fiscale, che ridurrà le entrate dello Stato, si accompagnerà la riduzione del debito pubblico, evidentemente l’unico modo di centrare l’obiettivo sarò l’impietosa falcidia della spesa dello Stato, che certamente non piacerà a chi ci sguazza; ma d’altronde, se in Argentina ci sta riuscendo Milei in circostanze molto più avverse, perché non dovrebbe riuscirci Trump? 

    In questo compito comunque arduo Bessent sarà coadiuvato dall’appositamente istituito Dipartimento per l’efficienza dello Stato (Department of Government Efficiency o DOGE), affidato da Trump al vulcanico impresario Elon Musk con l’obiettivo di un dimagrimento sostanziale del bilancio, opera in cui Musk a sua volta si farà assistere dall’imprenditore tecnologico e farmaceutico Vivek Ramaswamy. 

    Infine la terza “regola del 3” consisterà nell’incrementare di 3 milioni di barili al giorno l’estrazione nazionale di petrolio, i cui odierni 13,50 milioni di barili già pongono gli Stati Uniti in testa alla classifica mondiale dei produttori di oro nero; raggiungendo l’imponente quantità di 16,50 milioni di barili estratti giornalmente gli USA otterrebbero l’invidiabilissima autosufficienza energetica, sottraendosi all’eventuale chiusura dei rubinetti dei produttori mediorientali contro i quali, se e quando necessario, esercitare liberamente tutto il peso delle sanzioni già minacciate a destra e a manca da Trump. 


    Del pensiero economico di Bessent non si sa molto altro, comprensibilmente data la sua professione di gestore di fondi d’investimento privati e non di responsabile di politiche pubbliche, ma in un’altra recente intervista il prossimo ministro dell’economia ha esplicitato la sua profonda avversione al “peronismo”, inteso come l’irrefrenabile e sempre più difficilmente reversibile indebitamento dello Stato e la pervasiva intrusione di quest’ultimo in tutti i gangli della vita pubblica ed economica nazionale: due sregolatezze a cui Bessent addebita “il disastro” argentino assimilandolo al “bidenismo”, da lui ritenuto “l’incipiente peronismo negli Stati Uniti”, tanto che – parole sue – “ancora qualche anno di Biden e avremmo oltrepassato il punto di non ritorno”.

    E dunque quali saranno i pilastri della politica economica di Trump? Giudicando dal passato e dalle recenti dichiarazioni del presidente neoeletto, la cosiddetta “Trumponomics” si articolerà in cinque direzioni, ricalcando e anzi accentuando gli orientamenti già seguiti nel suo primo quadriennio. 

    La prima sarà certamente una politica commerciale protezionista: già il primo mandato Trump fu caratterizzato dall’introduzione di massicci dazi sulle importazioni, principalmente dalla Cina, anche nell’intento di agevolare una reindustrializzazione degli Stati Uniti con conseguente creazione di nuovi posti di lavoro, che tuttavia non si è materializzata né sotto Trump né sotto Biden, sebbene quest’ultimo in materia di dazi non abbia affatto mutato rotta bensì abbia addirittura rinforzato quelli introdotti del suo predecessore e ora successore; dalle dichiarazioni rilasciate finora Trump sembra intenzionato a imporre sanzioni e dazi ancora più massicci non solo contro la Cina, ma anche contro Messico, Canada ed Unione Europea.

    La seconda direttrice della Trumponomics, sostenuta con determinazione anche dal suo vicepresidente Vance, sarà l’indebolimento del tasso di cambio del dollaro. 

    Come ho ascoltato dalla sua viva voce, Vance ha dichiarato più volte di non volere un dollaro forte e di essere contrario in linea di principio anche al ruolo del dollaro come moneta di riserva mondiale: infatti, argomenta Vance, questo ruolo internazionale del dollaro ne aumenta la domanda e conseguentemente ne spinge al rialzo il tasso di cambio contro le altre valute; ma se il dollaro forte avvantaggia i consumatori statunitensi, che così possono comprare a prezzi bassi prodotti fabbricati all’estero, per lo stessa opposta ragione pregiudica nei mercati nazionali ed esteri i produttori statunitensi di quegli stessi e di altri manufatti. 

    Per questo motivo Vance sostiene che un dollaro più debole agevolerà la reindustrializzazione degli Stati Uniti, facendo costare meno i prodotti statunitensi acquistati dagli importatori esteri, e quindi stimolandone la produzione e le esportazioni, e viceversa renderà più costosi i prodotti esteri importati, promuovendone la fabbricazione nel Paese e così fomentando la creazione di posti di lavoro.

    Il terzo elemento della politica economica di Trump sarà mantenere basso il tasso d’interesse ufficiale, ricalcando l’orientamento già attuato nel suo primo mandato, sia per incentivare l’iniziativa economica privata offrendole denaro a costo contenuto, sia perché un tasso d’interesse modesto è a sua volta un modo di rendere meno attraenti gli investimenti in dollari, diminuendo la domanda estera del biglietto verde e quindi riducendone il tasso di cambio rispetto alle altre monete. 

    Come già nel suo primo mandato, per raggiungere quest’obiettivo Trump non esiterà, se necessario, a esercitare pressione sul presidente della Federal Reserve, ente nominalmente indipendente con il doppio mandato di contenere l’inflazione e di promuovere l’occupazione, ma inevitabilmente sensibile alla politica dato che il suo direttore è nominato dal presidente degli Stati Uniti. 

    Del resto a maggio 2026 scadrà il mandato dell’attuale presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, e verosimilmente Trump si sceglierà un successore propenso ad esaudire le sue richieste.

    La quarta colonna della strategia economico-sociale di Trump sarà il notevole alleggerimento della pressione fiscale, anche riducendo al 15% l’imposta sui proventi delle aziende, che comportando minori entrate per lo Stato dovrebbe essere accompagnata da una altrettanto consistente, se non addirittura superiore, contrazione della spesa pubblica; il rischio non trascurabile è che la politica, timorosa di scontentare i votanti, preferisca invece imboccare la facile strada di ridurre le imposte accollandone il costo al già colossale debito pubblico nazionale. 

    L’auspicio di Trump è che la minore pressione tributaria stimoli l’attività economica e di conseguenza incrementi il gettito dell’erario tanto da compensare o addirittura superare il minore incasso dovuto alla ridotta aliquota fiscale: è una strategia ideologicamente affascinante e tentata più volte in passato da vari governanti conservatori, ma non sempre con successo.

    Infine il quinto strumento a cui ricorrerà Trump sarà la deregolamentazione: è rimasto celebre il suo Executive Order, o decreto presidenziale, che nel suo mandato precedente subordinava l’introduzione di una nuova regolamentazione alla contestuale abolizione di altre due già in vigore…! 

    Verosimilmente le nuove deregolamentazioni privilegeranno i settori energetico e ambientale, per ridurre gli oneri delle imprese, stimolarne la sperimentazione e accrescere la competitività dell’economia nazionale. 

    Altri provvedimenti di Trump potrebbero puntare ad agevolare la concorrenza delle piccole e medie imprese tecnologiche a spese dei colossi del settore, da lui ritenuti fiancheggiatori dell’ideologia woke, ed a potenziare l’uso dell’intelligenza artificiale e delle criptovalute tra cui spicca il Bitcoin, fortemente osteggiato da Trump nel suo primo mandato ma del quale oggi, in un completo rovesciamento di posizione, il prossimo presidente è diventato un fervente sostenitore. 

    Chiudo questa carrellata sulle cinque principali probabili direttrici economiche di Trump notando che quattro di esse sono inflazionistiche: lo sono il protezionismo commerciale e il deprezzamento del dollaro, perché i dazi e la svalutazione rincarano i prezzi dei prodotti importati; lo è il tasso d’interesse basso perché, facilitando la concessione di finanziamenti, aumenta la circolazione del denaro e la domanda di beni e servizi rispetto all’offerta, spingendone al rialzo i prezzi; e lo sarebbe il possibile aumento del deficit pubblico, se gli sgravi fiscali non saranno adeguatamente compensati da minori spese, perché in questo malaugurato caso lo Stato tenderà a ridurre il suo debito stampando moneta, che circolando in maggiore quantità perderà valore unitario distruggendo il potere d’acquisto dei salari e dei risparmi dei cittadini, come appunto è accaduto in Argentina e prima ancora in Italia ai tempi della lira; solo la deregolamentazione, incentivando la produzione, sarebbe tendenzialmente antinflazionistica.

    Concludo questo commento ricordando che durante la campagna elettorale ho auspicato la vittoria di Trump (stavo per scrivere: ho tifato per Trump, ma mi sono subito corretto… qui tifo e sentimento c’entrano poco, ma c’entrano molto logica e ragionamento!), ritenendolo non perfetto – nessuno lo è – ma comunque di gran lunga preferibile al pessimo Biden, ma ho ben chiaro un concetto: si sbaglia chi, con una distorsione mentale abbastanza diffusa tra i miei connazionali, lo vede come una sorta di Vate o Messia da cui aspettarsi la nostra salvezza. 

    Trump, così come d’altronde Putin o Xi Jinping, è uno statista che legittimamente anteporrà l’interesse del suo Paese a qualsiasi altra considerazione, e di conseguenza l’Europa e ancora più l’Italia hanno e avranno per lui e (per gli altri statisti citati) solo valore in quanto pedine funzionali – e se necessario sacrificabili – alle rispettive strategie planetarie. 

    Non facciamoci illusioni: da decenni Trump è un uomo d’affari di enorme successo, abituato a condurre e vincere trattative durissime, e i motivi di controversia con la molliccia e fiacca Europa non mancheranno, a cominciare dal concetto che sono finiti i tempi in cui gli europei potevano fare assoluto e comodo affidamento sullo zio americano, ma che ora dovranno assumersi la responsabilità di badare a se stessi, anche perché per gli Stati Uniti prima o poi – e anzi direi più prima che poi – gli scenari principali in cui proteggere i propri interessi saranno la polveriera mediorientale e soprattutto l’Oceano Pacifico, su cui si affacciano non solo le coste statunitensi e cinesi ma anche quelle di protagonisti del calibro di Giappone e Corea. 

    Dunque non aspettiamoci la salvezza da nessuno e nemmeno da Trump, perché se vorranno salvarsi europei e italiani dovranno farlo da soli, diventando finalmente adulti e rendendosi conto della cruda inevitabilità della parola d’ordine imposta con lacrime e sangue da Mao Zedong durante la guerra civile cinese che 75 anni fa si concluse con la vittoria dei comunisti: “contare solo sulle proprie forze”.

    Francesco D’Alessandro

     

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