La polizia nazionale delle Canarie non è ancora riuscita a mettere a punto un protocollo d’azione per prevenire il suicidio tra gli agenti, un fenomeno che nel 2017 ha messo l’Arcipelago al primo posto con quattro uomini delle forze dell’ordine che hanno messo fine alle loro vite, due a Gran Canaria, uno a La Palma e uno a Tenerife.
Nessuno di loro aveva preso congedo a causa della depressione, il che significa inevitabilmente che ognuno era in regolare possesso dell’arma di ordinanza.
La media nazionale dei casi di suicidio è di circa otto all’anno a partire dal 2000 e riguarda principalmente soggetti di età compresa tra i 24 e i 62 anni.
Riguardo ai suicidi verificatisi sull’Arcipelago, il primo riguarda un giovane uomo che ha operato nell’unità di trasferimenti nei sotterranei della Città della Giustizia della capitale di Gran Canaria e l’ultimo in ordine cronologico, secondo quanto trapelato, era il numero due della CNP di Santa Cruz de Tenerife.
La psicologa forense Laura Monje che ha una vasta esperienza nel valutare i sintomi che portano al suicidio nei membri delle forze di sicurezza, ritiene che la maggiore difficoltà sta nella mancanza di apertura dei vari soggetti a parlare con un professionista; la pressione e lo stress cui sono sottoposti, la natura stessa del loro lavoro, sono tutti elementi che possono aggravare una depressione, pesando enormemente sugli sforzi di conciliare la vita familiare a quella lavorativa.
In particolare riguardo alla vita familiare, spesso non sono solo gli orari che devono rispettare a incrinare le relazioni ma anche trasferimenti che hanno impatti a volte devastanti sugli equilibri interni alle mura domestiche.
La reticenza con cui molti poliziotti mostrano le proprie emozioni è legato allo stereotipo dell’agente di polizia inattaccabile, senza debolezze e molto simile a un super eroe.
Ma un agente di polizia è pur sempre un uomo.
E chi deve vigilare sullo stato mentale ed emotivo di persone che mettono spesso in gioco la propria vita al servizio della cittadinanza, sono i diretti responsabili, i capi.
Un altro problema che emerge collegato al fenomeno del suicidio tra le forze dell’ordine è infatti la mancanza di supporto da parte dei superiori e una certa omertà tra i compagni.
Se uniamo frustrazione, depressione, impossibilità di esprimere disagio, stress e il possesso di armi, ci troviamo di fronte a un cocktail micidiale, una bomba pronta a esplodere all’ennesimo evento negativo con qualcosa di così drammatico come il suicidio.
Secondo la Monje, il corpo di polizia dovrebbe avere un ufficio di riferimento esterno che possa accogliere agenti in difficoltà al di fuori del posto di lavoro, così come si renderebbe necessaria una valutazione psicologica che rappresenti un appuntamento fisso nell’agenda di ogni agente operativo.
Al momento attuale gli agenti passano attraverso un test teorico, psicotecnico e fisico per entrare in servizio, dopo di che, nonostante affrontino situazioni estreme come omicidi o scene violente e di tensione, non viene mai ripetuto un test di valutazione psicologica.
Analogo problema è quello legato all’omosessualità, spesso celata con notevole disagio dato il tipo di lavoro svolto.
Insomma il fenomeno del suicidio, afferma la Monje, è assolutamente controllabile con un aumento degli psicologi al servizio del personale delle forze dell’ordine e con una maggiore attenzione da parte di chi è al comando.
dalla Redazione