Se ne parla da tempo come di un fenomeno diffuso e frequente, legato a una inspiegabile tentazione che fa ignorare ogni avviso e regola esposti e fa avvicinare la mano all’oggetto proibito: l’opera d’arte.
Che si tratti di un dipinto, di una statua, di un vaso o di un raro reperto archeologico, il comportamento è sempre lo stesso: la persona osserva, si avvicina, si avvicina un po’ di più e finalmente allunga la mano.
Fiona Candlin, professoressa di museologia al Birkbeck College di Londra, si è posta il quesito del perché molte persone provino questa irresistibile tentazione, osservando per oltre 20 anni i vari visitatori della Tate Liverpool prima e del British Museum poi, dove Fiona ha passato molto tempo seduta nelle gallerie studiando tutti gli approcci dei visitatori alle opere esposte.
L’intenso lavoro svolto ha prodotto uno studio, pubblicato su The Senses and the Society, sotto forma di uno speciale catalogo di piccole e segrete intimità, come le definisce la Candlin; il comportamento più diffuso è infatti quello del cosiddetto piccolo tocco non autorizzato, una sorta di rapporto tattile delicato con le opere d’arte del museo, attraverso il quale i visitatori sfiorano una ciotola, si appoggiano delicatamente ai piedistalli tracciando immaginari spirali con le dita, accarezzano la testa del cavallo di Halikarnassos o il ventre di Septimius Severus o addirittura giocano con le ombre del proprio corpo per ridare il braccio alla statua di Amenhotep III.
A volte questi approcci delicati degenerano in comportamenti trasgressivi, come nel caso dell’opera esposta al Neues Museum Nürnberg, raffigurante un collage di cruciverba che un audace visitatore cercò di risolvere.
La tentazione di toccare opere d’arte, precisa la Candlin, ha origini antiche, quando in epoca rinascimentale i cosiddetti Curiosity Cabinets, fatti di collezioni private, davano modo ai pochi visitatori di entrare in contatto con oggetti artistici, aprendo anche salotti di dibattiti culturali molto stimolanti; di fatto essi hanno rappresentato i predecessori degli attuali musei dove però le opere esposte non possono ovviamente sopportare il tocco dei 4 milioni di visitatori l’anno, solo per il British Muesum, che il più delle volte hanno un comportamento goffo e irriverente.
Mani sporche, unte, con anelli vistosi o orologi di grandi dimensioni, se applicate con forza a un oggetto delicato, ne possono causare il danneggiamento.
E a fronte di questo fenomeno, una legge inglese dei primi anni del 2000 passata alla storia come Disability Discrimination Act, ha ulteriormente favorito il contatto con le opere d’arte, avendo lo scopo di rendere le mostre più accessibili ai non vedenti.
Una legge non condivisa dalla Candlin che afferma la non utilità di una siffatta disposizione, benché da tempo molti musei abbiano lavorato per includere tutti i sensi, non solo quello della vista; ma è bene precisare che per queste particolari esperienze sono state messe a disposizioni aree circoscritte, come la Louvre’s Touch Gallery o il British Museum’s Hands on Desks.
Nel corso dei suoi studi la Candlin si è posta quindi la domanda relativa al motivo per cui attraverso i secoli le persone non sono mai riuscite ad evitare la tentazione di toccare le opere; i motivi addotti dalle numerose persone intervistate sono state molto curiosi.
Alcuni hanno infatti affermato di volersi assicurare che l’opera fosse originale, come se fossero tutti intenditori d’arte, altri hanno inteso la mancanza di una teca protettiva come un invito ad allungare le mani e diversi invece si sono giustificati dicendo che volevano sincerarsi della robustezza del manufatto, in questi casi un sarcofago.
Esiste una verità più ampia al di là di queste scuse, afferma la Candlin, e cioè che non è possibile conoscere le cose senza averle toccate; la sensazione tattile farebbe insomma la differenza in un processo di apprendimento e così giustificherebbe coloro che molto timidamente hanno confessato di voler capire quanto fosse levigato un monumento, quanto profonde fossero le incisioni in un manufatto di legno, in modo da comprendere meglio come quegli oggetti siano potuti durare così tanto nel tempo e meglio apprezzare l’abilità di chi li ha costruiti.
Del resto, non ci si aspetterebbe la stessa durata da un mobile Ikea che per certo non sopravviverebbe 3000 anni.
Vi sono poi coloro che hanno espresso che la tentazione è dovuta semplicemente al voler entrare in contatto con una cosa del passato e il caso del visitatore che ha lasciato scatole di cibo per gatti nella galleria di scultura egiziana del British Museum come offerta alla dea con la testa di leone Sekhmet è decisamente passato alla storia.
Tra gli episodi esilaranti e bizzarri la Candlin ricorda anche quello relativo a un signore che si è presentato al desk del museo con un’ascia prodotta decine di migliaia di anni fa, affermando con disarmante sincerità che quando ha toccato l’oggetto, questo si è appoggiato talmente bene alla sua mano da non volerlo più lasciare.
Quell’uomo, afferma la Candlin, è come se avesse compiuto un balzo immaginario nel tempo attraverso l’antica ascia, una modalità molto potente per vivere una relazione con le opere d’arte che, la stessa Candlin, alla fine confessa di toccare tutte.
di Ilaria Vitali