ROMA\ focus\ aise\ – Come ogni settimana, andiamo alla ricerca di notizie pubblicate sui media italiani che abbiano come argomenti i nostri connazionali all’estero. Come sempre, punto di riferimento è la rubrica sempre aggiornata de Il Fatto Quotidiano, “Cervelli in fuga”, che offre un vasto campionario di esperienze di vita. Questa settimana troviamo due articoli: uno di Elisa Murgese, l’altro di Alex Corlazzoli.
Il primo racconta la storia di Mauro Barbieri, astronomo, 43 anni, padovano, che dopo aver lavorato a Parigi, Marsiglia, Nizza e Rio de Janeiro, nel 2014 ha vinto un concorso all’Università di Atacama e ora è direttore di un corso di dottorato. “In Italia la maggior parte delle aziende che fa ricerca e sviluppo è gestita da analfabeti funzionali” è il suo amaro commento.
Mauro oggi vive a lavora nel deserto più arido del mondo che, assicura, è il paradiso degli astronomi. È qui, infatti, che le condizioni naturali sono ottimali per osservare il cielo di notte. Non a caso il 70% dei telescopi della terra sono installati proprio in Cile.
Eccellenza nel suo campo, Mauro in Italia ha faticato molto per trovare lavoro: “Il livello di banalità cui sono arrivate molte delle imprese con cui ho avuto colloqui di lavoro – racconta nell’articolo di Murgese – è la spiegazione del perché c’è ancora una forte crisi lavorativa in Italia”.
Cosa dire poi riguardo i concorsi? “Alcuni candidati – dice Mauro – sono più privilegiati di altri”. Meglio il Cile, allora, dove oggi l’uomo si occupa della ricerca di pianeti extrasolari, ovvero dei pianeti che sono attorno ad altre stelle, oltre a studiare i corpi del sistema solare, specialmente Marte. “Vicino al deserto cileno ci sono terreni simili a quelli di Marte. Proprio qui, il prossimo autunno, inizieremo esperimenti legati alla ricerca di forme di vita che vivono in condizioni estreme”.
Esperienza per certi aspetti simile quella di Emilio Zagheni, 36 anni, co-direttore dell’istituto Max Planck per la ricerca demografica a Rostock in Germania, dove è arrivato dopo un dottorato a Berkeley e una cattedra a New York. L’uomo si racconta nell’articolo a firma di Alex Corlazzoli: “Da studente universitario ho avuto l’opportunità di passare un semestre all’università di Montreal grazie ad un programma simile all’Erasmus e ad una borsa di studio. Volevo scoprire il mondo e quello era il modo migliore. Quell’esperienza mi ha entusiasmato ed è stata la prima di una serie. L’anno dopo ho fatto uno stage in un ufficio delle Nazioni Unite a Vienna”.
Al Max Planck si occupa di due grandi temi: le stime e previsioni dei flussi migratori e lo studio delle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione per le nostre società e per le relazioni tra generazioni. “in media – dice – la capacità dell’Italia di offrire opportunità per persone con elevati livelli di qualifica è più bassa rispetto a quella di altri Paesi dove ci sono molte più possibilità” ma “Le chance che ho avuto le devo all’Italia, grazie a tutte le persone che mi hanno aiutato a crescere come persona e professionalmente, grazie alla famiglia, agli amici, ai maestri e maestre delle elementari, fino al relatore della mia tesi alla Bocconi. Se non fosse per tutte le persone che mi hanno aiutato a crescere nel corso degli anni, non avrei avuto nessuna possibilità”.
Su IlMessaggero.it troviamo invece un articolo di Enzo Vitale (poi rilanciato dalle maggiori testate giornalistiche italiane) dal titolo “Un astronauta italiano sul tetto del mondo”. Sì, perché Maurizio Cheli non si accontenta di aver visto la terra dallo spazio nel 1996. Per aggiungere un nuovo tassello al suo album di avventure, ha deciso di raggiungere la vetta dell’Everest e ce l’ha fatta.
“Era il 1996 – racconta Cheli sul suo blog – quando sorvolando il pianeta a bordo dello Space Shuttle Columbia fotografai l’Everest. Da allora ho sempre desiderato raggiungere quella vetta. Guardare quel pezzo di mondo dalla prospettiva inversa rispetto a quella che mi vedeva in quel momento con la mia macchina fotografica a pochi centimetri dal vuoto dello spazio. Ora posso finalmente farlo”. Ci sono voluti tre anni per preparare la spedizione, con l’aiuto della guida Marco Camandona, protagonista di molte scalate ai 7-8mila. Cheli è stato pilota dell’Aeronautica militare. Nel 1992 è passato all’Esa, volando 4 anni dopo a bordo dello shuttle.
Capo collaudatore del caccia europeo Typhoon di Alenia, ha preso due lauree e un master e ha creato due startup nel settore aeronautico. Ma il sogno dell’Everest è sempre rimasto sullo sfondo. La preparazione è stata graduale: prima le Alpi, poi il Kilimangiaro e l’Aconcagua, sulle montagne andine. Infine il tetto del mondo. (focus\ aise)