Cari amici, il mese scorso chiudemmo la prima parte di questa commemorazione di Mikhail Gorbaciov rievocando la sua ascesa a primo e ultimo presidente eletto dell’URSS, le aspirazioni indipendentiste di alcune Repubbliche sovietiche e le irrequietudini dei Paesi satelliti appartenenti all’alleanza politico-militare del blocco comunista, il Patto di Varsavia, protagonista storico della seconda metà del secolo scorso.
Nella Repubblica Socialista Federativa Russa (o RSFR, da non confondere con l’URSS, di cui era presidente Gorbaciov: infatti la RSFR era solo una componente dell’URSS, così come lo erano le altre 14 Repubbliche sovietiche europee ed asiatiche) stava già sorgendo l’astro politico di Boris Yeltsin, coetaneo di Gorbaciov essendo anche lui nato nel 1931 da una famiglia di modeste condizioni nella regione di Sverdlovsk, ai piedi del versante asiatico dei monti Urali; il padre, operaio edile, durante lo stalinismo aveva trascorso tre anni in un gulag, nomignolo con cui erano allora erano designati i campi di “rieducazione politica”.
Gorbaciov e Yeltsin erano caratterizzati fisicamente da due inusuali particolarità: la grande voglia violacea sul cranio calvo di Gorbaciov e la mancanza del pollice e dell’indice della mano sinistra di Yeltsin, maciullati da bambino durante il suo avventato tentativo di smontare una granata rubata in un deposito di armi.
Il 12 luglio 1990, durante il 28° Congresso del Partito Comunista dell’URSS, Yeltsin annunciò le dimissioni dal partito per competere come candidato indipendente all’elezione del Presidente della Repubblica Socialista Federativa Russa, da lui vinta a giugno 1991 con un cospicuo 58% dei voti.
Poche settimane prima, nel referendum del 17 marzo 1991 (boicottato però dalle Repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania oltre che da Armenia, Georgia e Moldavia, che aspiravano alla completa indipendenza), quasi il 78% dei cittadini delle altre Repubbliche sovietiche votò per la prosecuzione dell’URSS come “federazione di Repubbliche uguali e sovrane”; dopo la firma del trattato, prevista a Mosca il 20 agosto 1991, la nuova entità, denominata Unione di Stati Sovrani, avrebbe avuto in comune solo il presidente, la politica estera e le forze armate, adottando una configurazione analoga a quella escogitata nell’Ausgleich (Compromesso) introdotto nel 1867 nell’Impero austroungarico per facilitare la convivenza tra le etnie tedesca e ungherese.
Il “nuovo corso”, che si manifestò anche con lo scioglimento del Patto di Varsavia il 1° luglio 1991, era visto con preoccupazione e ostilità da molti settori dello Stato sovietico, che temevano la dissoluzione dell’URSS; e mentre in alcuni media si moltiplicavano gli appelli pubblici per il mantenimento dello statu quo, nell’ombra si tramava una prova di forza per far deragliare la svolta. Il 17 giugno 1991 il primo ministro dell’URSS Pavlov chiese a Gorbaciov di conferire poteri eccezionali al Soviet Supremo, ricevendone un rifiuto, e in un articolo intitolato “La parola al popolo”, pubblicato il 23 luglio 1991 nel quotidiano Sovetskaya Rossiya (Russia Sovietica), alcuni esponenti del Partito Comunista invocarono un intervento drastico per scongiurare la scomparsa dell’URSS.
Inevitabilmente ai tuoni e lampi balenanti all’orizzonte fece seguito la tempesta: assente da Mosca dal 4 agosto Gorbaciov, in vacanza in Crimea da cui sarebbe rientrato il 19 agosto per firmare il giorno dopo il trattato istitutivo della nuova Unione, il 17 agosto il GKCP (sigla in russo del neonato “Comitato per lo stato di emergenza”) decise di passare all’azione. Nel pomeriggio del 18 agosto, interrotte dal KGB (il servizio segreto sovietico) le comunicazioni telefoniche tra la dacia in Crimea dove Gorbaciov era in vacanza e il mondo esterno, una delegazione del Comitato vi irruppe chiedendo al Presidente di dichiarare lo stato di emergenza, o in alternativa di dimettersi nominando presidente ad interim il vicepresidente Gennady Janaev.
Dopo il rifiuto di Gorbaciov di accettare l’ultimatum i congiurati ordinarono al KGB di trattenerlo in segregazione fino a nuovo ordine e nella notte del 19 agosto un dispaccio dell’agenzia di stampa ufficiale TASS comunicò l’impossibilità di Gorbaciov di proseguire nell’incarico di Presidente dell’URSS “per motivi di salute” e la sua sostituzione con Janaev; e appena 20 minuti dopo un altro dispaccio – ritrasmesso in mattinata dalle stazioni radiofoniche e televisive assieme a forti critiche alla politica gorbacioviana della perestroyka – annunciò l’istituzione per sei mesi dello stato di emergenza, lo scioglimento di tutti gli organismi “in contrasto con la Costituzione dell’URSS”, la sospensione dei partiti politici e delle organizzazioni che ostacolavano “la normalizzazione della situazione”, la censura dei media e il divieto degli scioperi.
Contemporaneamente il KGB diffuse un elenco di ricercati da arrestare, tra cui Boris Yeltsin, mentre Mosca era progressivamente circondata da unità militari ribelli.
Il presidente delle Repubblica Russa Yeltsin, all’inizio del golpe in visita nella Repubblica sovietica asiatica del Kazakistan, rientrò immediatamente a Mosca, atterrando per evitare l’arresto in un aeroporto diverso da quello in cui era atteso, e si recò immediatamente nel suo palazzo di governo per organizzarvi la resistenza, da dove proclamò lo sciopero generale ordinando ai cittadini della Repubblica Russa di disobbedire al GKCP.
I golpisti non ottennero le adesioni e il supporto popolare sperati e anzi un reparto di dieci carri armati si schierò a difesa del palazzo presidenziale di Yeltsin, che salito sulla torretta di un mezzo cingolato lesse da lì un celebre appello al popolo russo, poi ritrasmesso in televisione. Come ultima risorsa i ribelli decisero allora di assaltare e occupare il palazzo presidenziale di Yeltsin, ma i comandanti militari non obbedirono all’ordine verbale dei congiurati chiedendo al GKCP un ordine scritto che nessuno volle firmare, cosicché nella cruciale giornata del 21 agosto il colpo di stato perse progressivamente forza finendo per esaurirsi.
Nel pomeriggio dello stesso giorno una seconda delegazione del GKCP si presentò alla dacia in Crimea dove Gorbaciov era rimasto segregato, ma fu respinta dal Presidente dell’URSS, che dichiarò invalide e nulle tutte le decisioni del Comitato.
Poco dopo, resosi conto del fallimento della rivolta, l’autoproclamato presidente ad interim Janaev firmò il decreto di scioglimento del Comitato e si dimise dall’incarico.
Nella notte del 22 agosto 1991 Gorbaciov rientrò a Mosca, ma ormai gli eventi – per bizzarra ironia accelerati proprio dal colpo di Stato tentato per impedirli – gli stavano sfuggendo di mano: il 24 agosto 1991 il parlamento ucraino dichiarò l’indipendenza e una settimana dopo Boris Yeltsin, il presidente bielorusso Stanislav Shushkevic e il presidente ucraino Leonid Kravchuk, riunitisi in Bielorussia, firmarono il Trattato di Belovezha, che sanciva lo scioglimento dell’URSS e l’istituzione della cosiddetta Comunità di Stati Indipendenti.
Il 24 dicembre 1991 la Federazione Russa occupò il seggio già appartenente all’URSS nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il giorno dopo, in un drammatico discorso televisivo, Mikhail Gorbaciov si dimise da presidente dell’Unione Sovietica, che così dopo 70 anni cessava ufficialmente e definitivamente di esistere.
Prima di chiudere è opportuno un breve accenno ad alcuni eventi successivi per ricollegarci al presente che stiamo vivendo: tra il 1992 e il 1993 una profonda crisi politica, economica ed istituzionale determinò un duro conflitto tra il Parlamento russo e il Presidente Boris Yeltsin, che all’inizio di ottobre ordinò all’esercito di occuparne il palazzo, e uscito vincitore dallo scontro con le opposizioni, a dicembre indisse e vinse un referendum che modificava la costituzione russa in senso fortemente presidenzialista. Yeltsin fu rieletto presidente nel 1996 sconfiggendo il comunista Zuganov, ma a mezzanotte del 31 dicembre 1999 annunciò a sorpresa le proprie dimissioni designando pubblicamente come successore il primo ministro Vladimir Putin, che nella puntata precedente avevamo lasciato tenente colonnello del KGB nella Repubblica Democratica Tedesca allora satellite dell’URSS. Putin, dimessosi dal KGB nel 1991, entrò in politica dapprima come vicesindaco nella città natale di Leningrado (oggi San Pietroburgo), nel 1996 diventò direttore dello FSB (il servizio segreto russo successore del KGB), ad agosto 1999 fu nominato primo ministro da Yeltsin ed il 26 marzo 2000 fu eletto Presidente come suggerito alla popolazione dal suo predecessore. Il seguito della presidenza di Putin è la storia recente o recentissima che conosciamo.
Per concludere questa rievocazione, come annunciai nella prima parte pubblicata il mese scorso vorrei esprimere qualche considerazione sulla figura storica di Mikhail Gorbaciov, che alcuni nostalgici incolpano del tracollo dello Stato comunista plurinazionale che per mezzo secolo contese agli Stati Uniti il predominio planetario.
Umanamente posso capire questo risentimento istintivo, che semplificando molto gli eventi tende a focalizzare su una sola persona una serie complessa di situazioni precedenti, ma io sono meno severo: credo che Gorbaciov, come un personaggio di un tragedia greca classica implacabilmente guidato da un destino al quale non poteva opporsi, dovette quando ne fu richiesto caricarsi sulle spalle il fardello di tentare un cambiamento di rotta che i fatti rendevano ineluttabile: l’Unione Sovietica, così com’era, era ormai un colosso dai piedi di fragile argilla in corso di sgretolamento.
Recentemente ho ascoltato in internet contro Gorbaciov, in una conversazione tra due commentatori sudamericani sul conflitto in Ucraina, addirittura accuse di tradimento e di avere favorito la successiva espansione in Europa della NATO contro la quale, secondo costoro, l’URSS e il Patto di Varsavia avrebbero costituito un bastione che Gorbaciov fece crollare.
Suvvia, non diciamo stupidaggini!
Trovo stupefacente tanta miopia storica e incapacità di analisi di questi due commentatori, a loro dire molto seguiti, ma che dopo avere detto questa colossale sciocchezza non lo sono più dal sottoscritto.
Il tracollo dell’URSS non fu certo colpa di Gorbaciov, né fu da lui voluto; semplicemente il primo e ultimo presidente sovietico eletto, chiamato a tentare di salvare il salvabile in una situazione da tempo insostenibile, fece quello che poté, ma – come ho spiegato più sopra e il mese scorso – mancò l’obiettivo non per propria colpa, ma per i difetti congeniti del comunismo, che è per sua natura irriformabile: o nonostante i fallimenti delle sue politiche si autoimprigiona nella camicia di forza dei suoi dogmi ideologici, perpetuabili solo con l’autoritarismo, o se cerca di evolversi in qualcos’altro dismettendo la camicia di forza, gradualmente e inevitabilmente questo “altro” si trasmuta in un sistema che col comunismo non può avere più nulla a che fare… come infatti avvenne nel caso in esame.
Da allora sono passati trent’anni densissimi di eventi, che nella rapidissima evoluzione del mondo moderno equivalgono a tempi molto più lunghi in epoche passate e che hanno reso il contesto di oggi diversissimo dagli anni 80/90 del secolo scorso; solo la mancanza di discernimento critico può indurre chi non ha vissuto quei tempi (e dall’aspetto i due giovani commentatori sudamericani sembravano nati proprio in quegli anni), in un assurdo appiattimento di prospettiva storica, ad arrampicarsi in bizzarri paralleli tra la Russia di oggi e l’URSS di allora, tra la NATO di oggi e quella della seconda metà del secolo scorso, o tra Putin e Gorbaciov, o tra Biden e Reagan.
Nella seconda metà del secolo scorso l’URSS comunista e la sua macchina militare, il Patto di Varsavia, erano una minaccia reale per l’Europa occidentale, e la NATO di quei tempi era una difesa indispensabile contro questo spauracchio.
In sintesi: non avrei voluto allora, come non vorrei oggi, vivere sotto un regime comunista, punto! e senza la NATO e gli Stati Uniti di allora l’Unione Sovietica ci avrebbe fagocitati in un batter d’occhio, anche con la collaborazione di alcuni potenti partiti comunisti occidentali, soprattutto in Italia ma anche in Francia, per non parlare del folle insurrezionalismo terroristico delle Brigate Rosse italiane e della Rote Armee Fraktion (Drappello dell’Armata Rossa) tedesca.
Certamente allora come oggi l’Europa da questo lato della cortina di ferro – come all’epoca era chiamato il confine ideologico, politico, economico e militare tra i due blocchi contrapposti in cui era spaccato il continente – era un satellite degli Stati Uniti e funzionale ai suoi interessi… ma chi dice questo in tono saccente, credendo di avere scoperchiato chissà quale arcana verità, ha solo scoperto l’acqua calda.
Da che mondo è mondo, dall’Impero Romano in poi e sicuramente anche prima, in tutte le epoche storiche è esistita una potenza egemone con il suo seguito di Paesi satelliti, che incapaci di assumere da soli un ruolo più incisivo devono rassegnarsi a quello di servitorelli o dell’impero dominante o del suo antagonista – se ce n’è uno – che aspira a prenderne il posto; e a quel tempo dovendo scegliere tra essere filoamericano e atlantista, o essere comunista e filo-URSS, non avevo dubbi: ritenevo allora, e tuttora ritengo, la prima alternativa sicuramente il male minore. Oggi, in una situazione storica completamente diversa, in cui la Russia contemporanea non ha nulla a che vedere con l’ex Unione Sovietica, il primo male da evitare mi sembrano gli Stati Uniti, inventori e propagatori della mania similcomunista del politically correct – del resto alacremente scimmiottata da quel vaniloquente e incapace mostriciattolo né carne né pesce che è l’Unione Europea – e la NATO, che ne è il braccio armato… e dimostro l’assurdità di qualsiasi parallelo tra la Russia odierna e l’ex Unione Sovietica non solo sottolineando la totale diversità ideologica, ma anche semplicemente ricordando che i tre più potenti dittatori della storia dell’URSS comunista – Stalin, Kruscev suo successore dopo un quinquennio di congiure intestine ed epurazioni, e Brezhnev a sua volta succeduto a Kruscev, la cui morte come ricordai il mese scorso precedette di appena tre anni l’avvento di Gorbaciov – non erano di etnia russa, bensì georgiano il primo e ucraini (!!) gli altri due.
Purtroppo per noi l’Europa pagherà a carissimo prezzo, e non solo economicamente con la deindustrializzazione a vantaggio di USA e Cina, il colossale errore strategico di avere rinunciato all’occasione storica di riassumere una propria identità e di rilanciarsi svolgendo un proprio ruolo autonomo, asservendosi invece con le mani e i piedi legati alla strategia di dominio economico, ideologico e militare – sebbene ammantata di una melliflua e falsamente zuccherosa ideologia – degli Stati Uniti, e di avere spinto la Russia – un vicino di casa potente e un cruciale partner economico e commerciale – tra le braccia della Cina, che quando tra qualche decennio diventerà la potenza egemone planetaria, nonostante gli incoerenti sforzi statunitensi, sarà un padrone la cui spietata durezza verso i suoi satelliti – Europa compresa – non avrà paragoni nei tempi moderni.
Ma lasciamo perdere, sto divagando e chi vivrà vedrà… chiudo questa rievocazione tornando a Mikhail Gorbaciov. Storicamente complessivamente lo assolvo, fece con buona volontà quel che umanamente poté in una situazione difficilissima, anche se come quasi sempre accade nella storia – e spesso anche nelle nostre più modeste vite – il gioco degli eventi prese una direzione diversa dalle intenzioni.
Come critica dirò che avrebbe potuto risparmiarsi il filmato pubblicitario girato nel 1997 sulla Piazza Rossa per reclamizzare un ristorante moscovita di Pizza Hut, così come a febbraio del 1999 avrebbe potuto risparmiarsi la comparsata nel Festival di Sanremo presentato da Fabio Fazio … lui spiegò poi di averlo fatto perché aveva bisogno di soldi per far curare la moglie Raissa, malata di leucemia e morta in un ospedale tedesco appena sette mesi dopo. Può darsi, ma ormai ha poca importanza… adesso è tutta acqua passata, inghiottita dai gorghi del tempo… requiescat in pace.
Francesco D’Alessandro