Dopo Nayib Bukele, il presidente castigamatti di El Salvador di cui vi ho raccontato a novembre, oggi torniamo in America Latina per parlare del presidente neoeletto di un Paese ben più importante, nel bene e negli ultimi decenni purtroppo nel male: l’Argentina, di cui già scrissi a ottobre 2019 poco prima della fine della presidenza del conservatore Mauricio Macri, eletto nel 2015 tra grandi speranze poi naufragate con il ritorno alla Casa Rosada – il palazzo presidenziale – dei due Fernández, Alberto e Cristina de Kirchner, epigoni della costola sinistroide o “kirchnerista” del peronismo.
Il 19 novembre scorso però ha vinto la corsa alla presidenza Javier Milei, che ad alcuni per qualche motivo dì politica interna italiana o spagnola piace definire sprezzantemente “estremista di destra”, o “ultraderechista” come dicono qui.
Ho ascoltato integralmente in TV i due discorsi pronunciati da Milei la notte del 19 novembre, subito dopo l’elezione, e il 10 dicembre durante la cerimonia d’insediamento tenuta dinanzi ai suoi sostenitori osannanti “¡Libertad, libertad!”: discorsi reboanti di promesse, e anzi di certezze, di far tornare l’Argentina tra le prime potenze mondiali, ma inframmezzati dal già celebre slogan “No hay plata!” (Non ci sono soldi!) e conclusi invariabilmente dal triplice volutamente sguaiato motto “¡Viva la libertad carajo!”, coerente con la folta capigliatura arruffata e lo sguardo vagamente allucinato del personaggio, che in campagna elettorale durante i comizi agitava una motosega per sintetizzare visivamente la sua determinazione di mozzare la testa alla “casta politica” che negli ultimi decenni ha portato al disastro l’Argentina, dove oggi dilaga una micidiale inflazione di oltre il 140% annuo. Faccio un paio di esempi pratici per chiarire cosa significa un’inflazione del 140%: significa che se oggi compriamo un alimento che costa poniamo 10 euro, tra un anno per comprare quello stesso cibo di euro ce ne vorranno 24; o se in anni e anni di sacrifici tu avessi messo da parte diciamo 50.000 euro per un tuo progetto di vita, tra un anno l’irrefrenabile impennata dei prezzi avrà ridotto quei tuoi sudati risparmi al potere d’acquisto che oggi hanno circa 20.800 euro, ossia li avrà più che dimezzati, e il tuo progetto di vita, travolto dall’inflazione, andrebbe a farsi friggere.
L’inflazione è la tassa più iniqua inflitta in perfetta malafede alle sventurate popolazioni dai politici incapaci e disonesti, conseguenza diretta dei debiti che dalle comode poltrone governative, per arricchire gli amici degli amici dei loro amici quei politici fanno contrarre allo Stato; perché se con tutta evidenza l’inflazione distrugge il potere d’acquisto dei redditi e risparmi della popolazione, subdolamente – e qui sta il trucco – riduce anche il valore reale dei debiti, ed è quindi sommamente vantaggiosa per i debitori e particolarmente per quello tra tutti più mostruosamente indebitato, cioè lo Stato, che i politicanti (non solo argentini, beninteso…) mungono indebitandolo. Come ricordavo nell’articolo di ottobre 2019, che suggerisco a chi volesse completare il quadro, negli ultimi decenni lo Stato argentino ha fatto più volte fallimento per l’impossibilità di rimborsare le obbligazioni emesse per finanziare il suo vertiginoso deficit, nonostante la massiccia quantità di carta igienica – furbescamente denominata moneta – stampata a manetta dal suo Banco Central de la República per coprire almeno in parte la voragine del debito, da cui la conseguente devastante inflazione.
Nel discorso di insediamento del 10 dicembre Milei ha annunciato agli argentini un percorso di lacrime e sangue per uscire dalla profondissima crisi in cui decenni di finanza incompetente e disonesta hanno precipitato il Paese, iniziando dal dimagrimento drastico della vacca da mungere statale, allevata da peronismo e kirchnerismo per sollazzare i loro compagnucci della parrocchietta; ma per la sua enormità la “medida estrella”, cioè il provvedimento economico saliente promesso da Milei in campagna elettorale, è la chiusura del Banco Central, che così non potrebbe più stampare a manetta i pesos il cui potere d’acquisto è via via polverizzato dall’inflazione: ossia addirittura l’Argentina rinuncerà alla sovranità monetaria! e adotterà come moneta ufficiale il dollaro degli Stati Uniti, che ad esempio già circola con questa funzione in Ecuador, El Salvador e Panama.
Ai politicanti verrebbe quindi a mancare il cosiddetto “prestatore di ultima istanza” a cui ricorrere per stampare cartamoneta da immettere in circolazione, non potendo evidentemente il governo di Buenos Aires imporre alla Federal Reserve statunitense di soccorrere, stampando dollari, le loro velleità di spesa pubblica illimitata.
Il ragionamento di Milei ha una sua fondatezza, ma rinunciare al controllo della propria moneta – punto fermo da lui ribadito più volte – comporta un doppio rischio finanziario e commerciale: infatti oggi tenere dei soldi depositati in un conto corrente bancario a vista è infruttifero per i depositanti, ma le banche usano quei depositi prelevabili in qualsiasi momento per investirli in lucrosi prestiti a lungo termine, che invece hanno scadenze fisse lontane nel tempo; ne consegue che se molti correntisti prelevassero contemporaneamente i loro depositi a vista, non potendo invece le banche far fronte ai prelievi recuperando immediatamente i soldi prestati a lunga scadenza, la conseguente crisi di liquidità le porterebbe al fallimento, come infatti accadde lo scorso maggio alla californiana Silicon Valley Bank (ne ho parlato nel numero dello scorso maggio); e le banche si azzardano a questo comportamento irresponsabile perché sanno bene che alle loro spalle c’è sempre il Pantalone dello Stato e della Banca Centrale, che per evitare disastri e micidiali fallimenti a catena accorrono a “salvarle” coi soldi dei contribuenti.
La sparizione del “prestatore di ultima istanza” impersonato dal Banco Central col passare del tempo costringerebbe le banche a responsabilizzarsi, ma se in un periodo relativamente breve per un repentino motivo qualsiasi – ad esempio un crollo generalizzato della fiducia – i depositanti in preda al panico corressero in massa a prelevare i loro soldi, proprio la mancanza del tappabuchi “prestatore di ultima istanza” scatenerebbe una catena di insolvenze dalle conseguenze dirompenti.
L’altro rischio, ancora più pesante, è di natura commerciale: la Federal Reserve decide la sua politica monetaria in base alle esigenze degli Stati Uniti e non a quelle dei Paesi che spontaneamente scelgano di dollarizzarsi; pertanto quando – come accade già da qualche mese – la Federal Reserve decide di aumentare il tasso d’interesse, e per questo gli investitori internazionali che vogliono percepire quel succoso interesse investendo in obbligazioni statunitensi comprano dollari per acquistarle, l’intensità della domanda di dollari ne fa apprezzare il tasso di cambio sulle altre monete; ne consegue che le esportazioni argentine, che allora gli acquirenti esteri dovrebbero pagare in dollari, e non più in pesos, rincarerebbero rispetto ai prodotti concorrenti dei Paesi vicini come il Brasile, il Paraguay o l’Uruguay; ma l’Argentina dollarizzata non potrebbe più abbassare il prezzo internazionale delle proprie merci ricorrendo alla svalutazione del peso.
Ricordo molto bene l’inflazione strisciante in Italia per le ripetute svalutazioni competitive della lira decise negli ultimi decenni del secolo scorso dai governi italiani per stimolare le esportazioni rendendole meno costose per gli acquirenti esteri, che prima dell’avvento dell’euro portarono progressivamente il cambio della nostra ex moneta da circa 300 lire a quasi 1.000 contro il marco tedesco e da circa 600 lire a quasi 2.000 contro il dollaro…progressiva e inarrestabile perdita di valore della moneta sintetizzata dalla banconota da mezzo milione di lire (!!!) emessa dalla Banca d’Italia con l’effigie di Raffaello a settembre 1997.
Ma per mettere in crisi il commercio estero argentino nemmeno sarebbe necessario l’apprezzamento del dollaro: infatti per aumentare immediatamente la competitività internazionale delle esportazioni di altri Paesi sudamericani a scapito di quelle argentine basterebbe la svalutazione competitiva del real brasiliano o del peso uruguayano o del guaraní paraguayano, a cui l’Argentina non potrebbe più reagire svalutando anch’essa la sua moneta, di cui non avrebbe più il controllo.
Come si vede la dollarizzazione non è da sola la panacea di tutti i mali, e per rimettere in carreggiata l’Argentina, e farla tornare come promette Milei il ricco Paese leader mondiale che era oltre un secolo fa, dovrebbe essere accompagnata da una serie di riforme radicali e cruciali, che però ritengo improbabili.
Sintetizzo qui di seguito i motivi del mio pessimismo:
- L’Argentina è gravemente malata di invadenza dello Stato per mano dei suoi politici, che da molti decenni lo mungono a vantaggio proprio e dei loro compagnucci della parrocchietta; ma ahimè i politici di un Paese non sono un corpo estraneo cadutovi per caso dallo spazio siderale, bensì carne e sangue della popolazione in cui sono nati, cresciuti e pasciuti e di cui fin dalla nascita hanno respirato i “valori” che poi praticano in politica; purtroppo dunque i governanti i argentini che per decenni hanno saccheggiato il loro Paese altro non sono che lo specchio della popolazione che per decenni li ha espressi e votati. Questa popolazione, finora cieca e sorda o addirittura complice, avrà la lungimiranza necessaria per rinsavire e appoggiare col suo indispensabile voto il cambiamento radicale auspicato da Milei…? Perché, evidentemente, non avendo il presidente poteri dittatoriali, se nelle elezioni politiche i votanti gli voltassero le spalle – e sicuramente a Milei non mancheranno i nemici che in spietata malafede incolperanno lui dell’incancrenita crisi argentina – egli non avrebbe la maggioranza parlamentare necessaria per far approvare le amplissime e severe riforme necessarie per cambiare strada.
* È comprensibile l’entusiasmo suscitato da Milei in una popolazione il cui 40% è povero e il 10% è addirittura indigente, e che fideisticamente aspetta da lui il miracolo… mutatis mutandis (Milei infatti è un economista prestato alla politica) mi ricorda l’entusiasmo che suscitò l’entrata in politica di Berlusconi a gennaio 1994 e la travolgente vittoria del suo nuovo partito Forza Italia nelle elezioni di fine marzo di quello stesso anno… e chi ha vissuto quel periodo ricorda come negli anni successivi Berlusconi non solo fu accanitamente ostacolato dai suoi avversari politici, ma anche pugnalato alle spalle dai suoi presunti alleati, e in sintesi che misera fine hanno fatto le sue promesse di allora. Temo che lo stesso accadrà a Milei: il variegato 56% che lo ha votato è motivato da una confusa insofferenza “di pancia”, ma un compatto 44% gli ha votato contro preferendogli l’inetto ormai ex ministro dell’economia, il peronista Sergio Massa esplicitamente appoggiato in campagna elettorale dal capo del governo spagnolo Sánchez, e i politicanti parassiti che nei decenni hanno infiltrato i gangli del potere in Argentina lo ostacoleranno in tutti i modi per tornare a mungere la vacca statale. I governatori in carica in molte importanti province, tra cui Buenos Aires – la capitale dove ovviamente si annida la peggiore burocrazia parassita – sono ancora peronisti e Milei, non disponendo di una maggioranza parlamentare propria per legiferare, avrà bisogno del sostegno dei votanti di Patricia Bullrich, da lui sconfitta nella corsa alla presidenza (e infatti, dopo essersi scambiati le accuse più atroci in campagna elettorale, Milei l’ha appena nominata ministra della Seguridad), e dell’ex presidente Mauricio Macri della coalizione conservatrice Juntos por el Cambio, che lo hanno appoggiato nel ballottaggio contro Massa, ma che sicuramente ora vorranno pesare nelle scelte che contano.
In conclusione: l’Argentina purtroppo mi ricorda l’Italia, che da decenni anch’essa cammina, o meglio barcolla, sulla stessa falsariga di alternanze di governi di diverso colore nessuno dei quali però cava un ragno dal buco, anche perché impastoiati dal colossale debito inarrestabilmente accumulatosi nei decenni; del resto una nota spiritosaggine ci ricorda che l’Argentina è un Paese abitato da italiani che parlano spagnolo… e un celebre verso di Orazio ci ammonisce che “Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt”, cioè chi emigra attraversando il mare cambia il cielo sulla sua testa, ma non la sua mentalità.
Di ricorrere alla dollarizzazione, a rifletterci bene, nemmeno ci sarebbe bisogno se gli argentini non si fossero scioccamente autoinflitti la distruzione del loro Paese; la carta estrema della dollarizzazione giocata da Milei mi pare piuttosto l’ultimo azzardo disperato di chi sa di non potersi fidare del senno dei propri compatrioti… ma naturalmente gli faccio i miei migliori auguri di risanare il suo Paese, sperando fortemente che il mio scetticismo sia ingiustificato.
Francesco D’Alessandro