More

    Andiamo a camminare, storia di una… discesa!

    Foto di Cristiano Collina

    Secondo Wikipedia, la vetta del Teide si trova a 3.715 metri sul livello del mare e a 3.785 metri dal fondo dell’Oceano Atlantico alla superficie, per un totale di 7.500 metri di montagna, io mi trovavo esattamente al centro del suo cratere, sdraiato sulla schiena e rivolto verso il sole, sentendo l’inferno vibrare sotto di me.

    Guayota era il nome dato dai Guanci al demone rinchiuso in Echeyde, in attesa dell’occasione per risorgere e distruggere il mondo. 

    L’ultima eruzione, che ha dato origine al luogo in cui ci troviamo (il Pitón del Teide), sembra essere avvenuta molto prima della conquista, tra il VII e il X secolo dopo Cristo.

    Io, che sentivo le forze telluriche dell’interno della terra e respiravo l’odore pungente delle fumarole, saltai in piedi per contemplare un cratere opaco e giallastro dovuto alle componenti ossidate di anidride carbonica e zolfo.

    Probabilmente fu un guanche a scalare per primo la vetta, anche se le prime misurazioni approssimative risalgono al XVII secolo da parte di alcuni inglesi. 

    Fu infine un francese (Jean-Charles de Borda) a effettuare una triangolazione accurata e affidabile nel 1776, corretta solo di un paio di metri da Alexander von Humboldt. 

    Quando il naturalista prussiano vi salì nel 1799, il Pico Viejo, fratello minore del Teide, aveva eruttato per tre mesi un anno prima, dando origine ai Narices del Teide.

    Secondo il suo stesso racconto, Humboldt intraprese l’ascesa a piedi dal Puerto de la Orotava – oggi chiamato Puerto de la Cruz – accompagnato dal suo fedele Aimé Bonpland e dal viceconsole francese con alcune guide di Tenerife non molto ben disposte.


    Il giovane berlinese era affascinato da tutti i fenomeni naturali, ma considerava la scienza come un veicolo per una conoscenza più ampia: “La natura per me non è solo fenomeni oggettivi, ma uno specchio dello spirito dell’uomo”. 

    Scrisse anche: “Il mio vero e unico scopo è indagare l’intreccio di tutte le forze naturali, l’influenza della natura morta sul mondo animale e vegetale vivente”, perché… “Tutto è interazione”.

    Questo sì che era un ecologista integrale.

    (A proposito di accumulo di date, è curioso che un anno prima dell’eruzione di Pico Viejo e due anni prima della visita di Humboldt a Tenerife, abbia avuto luogo il terzo tentativo degli inglesi di conquistare il porto di Santa Cruz, una battaglia in cui l’ammiraglio Nelson perse un braccio a causa di un colpo di cannone dei difensori. Era il 25 luglio 1797, data che da allora viene commemorata nella capitale di Tenerife).

    Avevamo deciso di prendere la funivia fino a La Rambleta verso le cinque del pomeriggio, perché solo dopo le sei siamo riusciti a ottenere il permesso dal parco nazionale per salire sul sentiero Telesforo Bravo.

    La prima sorpresa è stata che, tra tutte le folle di visitatori che si recano al belvedere di Pico Viejo o La Frontera, nessuno è salito sul cono. 

    La distanza è breve, ma con un dislivello accumulato (quasi 200 m in 614 metri). 

    Ogni passo verso la cima è stato faticoso e lento, con ansimi e vertigini che non siamo riusciti ad attribuire all’altitudine, ai gas che fuoriescono dalle fumarole o alla mancanza di forma fisica.

    Una volta raggiunta la cima, il piccolo cratere emette un fetore infernale, ma la vista si alza verso il dio Achaman. 

    E non è solo un modo di dire, come spesso accade in alta montagna, ma è possibile scorgere all’orizzonte la sagoma di Tenerife da un lato e delle sue sorelle Canarie dall’altro. 

    Con orgoglio notiamo che siamo soli sulla vetta più alta della Spagna.

    Ma come tutto ciò che sale, scende, abbiamo iniziato a scendere il cono fino a raggiungere l’incrocio di un sentiero chiaramente distinguibile, molto ben segnalato con una striscia bianca e una gialla. 

    Non avevamo guardato bene le mappe, ma avevamo intuito che quella era l’unica via di discesa, tanto più che non c’era nessun altro sentiero, nemmeno un’anima viva intorno a noi. 

    L’area intorno alla funivia è completamente vuota di turisti e personale.

    Presto raggiungiamo il punto panoramico di La Fortaleza e rimaniamo estasiati dalla vista panoramica sul versante settentrionale della montagna, anche se ovviamente la vista migliore era già stata raggiunta in cima. 

    Continuiamo a scendere, ma il passo è lento anche a causa dello zigzagare e della sabbia sul sentiero.

    A metà della discesa ci imbattiamo nel Refugio de Altavista, creato nientemeno che nel 1892 per gli audaci spedizionieri che volevano pernottare durante la loro ascesa al Teide, anche se è stato completamente ristrutturato nel 2007. 

    Purtroppo, dopo la crisi immobiliare ne sono arrivate molte altre e durante la pandemia il rifugio è stato chiuso, così come molte altre risorse e strutture gestite dallo Stato o dalle Comunità, cioè mai più riaperte.

    Sul sito web è indicato come “temporaneamente chiuso e senza una data di apertura precisa”, e la spiegazione che mi è stata data al telefono è stata che “stanno effettuando dei lavori”. 

    Foto di Cristiano Collina

    Non abbiamo trovato traccia di tali lavori o di altre attività nelle magnifiche strutture, che sono chiuse per la notte.

    Siamo stati anche sorpresi, data l’ora del crepuscolo, di imbatterci in giovani ragazzi e ragazze che si arrampicavano sul ripido sentiero: dove avrebbero passato la notte, sarebbero riusciti a scendere guidati dalla luna piena? 

    In effetti, anche noi ci eravamo ripromessi di essere molto felici, fiduciosi che i chilometri rimanenti sarebbero stati illuminati dalla sua calda luce, ma non è stato così.

    Con una visibilità ancora buona, siamo arrivati alla base del Teide, da dove un paio di sentieri più piacevoli conducono a una montagna bassa dal nome bellissimo: Montaña Blanca. 

    Confortati dal ristoro e dopo esserci rimboccati un po’ meglio le giacche, visto che la serata si sta ormai raffreddando, prendiamo il sentiero a destra che porta semplicemente al belvedere della Montaña Blanca, traccia un cerchio e torna al bivio.

    I cartelli e il tracciato indicano che mancano ancora più di 7 km, facendo una grande deviazione fino alla base della funivia, dove abbiamo lasciato l’auto.

    Vedo davanti a me il dolce pendio di una montagna che ci invita a prendere una scorciatoia. 

    Sullo sfondo vedo la linea della strada, così lontana ma così vicina, con quella luce ingannevole delle distanze. 

    Come Chisciotte che insegue i miraggi o Ulisse scardinato dal canto delle sirene, mi lancio nell’abisso dell’ignoto. 

    Quel colpo mancherà di successo e poi di concerto. 

    Calcolo i rischi e, senza pensarci due volte, mi lascio scivolare lungo il dolce pendio, trascinando con me il mio sofferente compagno.

    Il poveretto borbotta qualche motivo per cercare di dissuadermi, ma io sono già a metà della discesa e lui è spinto a seguirmi nell’avventura. 

    Contando forse sulla sua maggiore conoscenza del paesaggio, dell’escursionismo e della mountain-bike, sui suoi strumenti di contrasto, come l’applicazione GPS sul suo terminale, il suo magnifico orologio Garmin con geolocalizzatore e una mappa che gli è stata consegnata al piano superiore, pensa di poter dominare la situazione. 

    In poco tempo cala la notte e la luna emerge rossastra e spettrale, illuminando a malapena il nostro cammino.

    Con la torcia nella mano sinistra e il bastone nella destra, inciampiamo, protestiamo e saltiamo da una pietra all’altra, mentre Javi insiste per trovare qualcosa che assomigli a un sentiero. 

    All’inizio scendiamo su pendii con una moltitudine di sassolini che affondano sotto i nostri piedi come sabbia e non sono del tutto scomodi, anche se si infiltrano nelle nostre scarpe. 

    Ma poi si trasformano in sassi più grossi, sui quali inciampiamo, fino a raggiungerne altri più appuntiti e impraticabili.

    La luce della luna, che ci guarda come un occhio iniettato di sangue, all’inizio è debole, la nostra discesa diventa sempre più verticale e le cadute più frequenti. 

    Stringo il mio bastone di metallo e mi faccio male, ma fortunatamente senza grosse conseguenze.

    Nella difficile oscurità riusciamo a malapena a distinguere i contorni del paesaggio, rendendo piuttosto difficile decidere da che parte andare. 

    Di fronte allo sconforto che mi invade a causa della mia decisione errata, il mio coraggioso compagno di viaggio prende l’iniziativa e propone di andare di lato per non perdere quota e poter raggiungere la strada in leggera pendenza, che sembra essere sempre alla stessa distanza.

    Tuttavia, questo è più facile a dirsi che a farsi, e ci costringe a continui saliscendi con massi sempre più difficili. 

    Il suo orologio portentoso ci indica quelli che sembrano sentieri sulla mappa, ma non ne trova…

    In questa situazione ci scontriamo con massi sempre più mostruosi e io, stanco di soffrire, guardo dritto verso la strada desiderata e mi sembra di vedere un barranco che sprofonda nel buio e che evidentemente è stato creato da un fiume di lava. 

    Da questa parte, mi dico, andiamo dritti e in discesa, così prima o poi ci imbatteremo nella pista che attraversa la Caldera. 

    Il mio amico, impreca silenziosamente, ma non sa come opporsi alla mia determinazione e mi segue faticosamente lungo lo scomodo barranco che sembra condurci verso un abisso di cui il giorno dopo si parlerà sui giornali locali e nazionali… 

    Più tardi sapremo il pericolo a cui ci siamo esposti, perché a quanto pare ci sono buchi e grotte nascoste dove si può sprofondare all’improvviso e senza preavviso.

    Foto di Cristiano Collina

    La nostra situazione assomiglia a quella di tanti alpinisti che, smarriti, prendono la fatale decisione di proseguire fino a cadere. 

    Ignorando tutto questo, disprezzando le paure di Javi e con la forza della disperazione, avanzo come un conquistatore deciso a vincere o a morire nell’impresa. 

    Sono stanco e ammaccato per le cadute, ma anche infuriato, e la scarica di adrenalina mi toglie ogni paura, dandomi il coraggio necessario.

    Il mio amico, invece, nonostante la sua maggiore forza fisica, è preoccupato per una situazione che nessuna delle sue attrezzature lo aiuta a controllare e pensa che la mia decisione sia suicida perché il salto sulla strada potrebbe essere preceduto da un taglio o da un barranco insormontabile (come vedremo in seguito che è successo in molti dei suoi tratti).

    In quel momento cruciale eravamo in contatto acustico ma non visivo, perché io procedevo lungo il il letto del barranco come un demone, senza curarmi se lui mi seguisse o meno, deciso a trovare la strada o a perire nel tentativo. 

    Dopo essermi appollaiato ancora una volta su un masso, vidi la scura pista asfaltata dall’altra parte, ma preceduta da un ripido argine che non sembrava insormontabile.

    Mi prende il panico quando comincio a scivolare lungo lo scivolo di arenaria e pietre mobili che, come dice Humboldt nel racconto della sua ascesa al Teide, mi prendeva il retro dei pantaloni. 

    In quel momento non lo sapevo e non mi importava, perché c’erano cose più importanti in gioco. 

    Il mio amico mi lascia avanzare e aspetta l’eco della mia voce per valutare i rischi e la misura del terreno. 

    Trascinando il sedere lungo la collina per non correre il presunto rischio di una caduta, arrivo alla fine dell’argine e con un piccolo salto mi pianto sulla strada deserta. 

    Dico subito al mio disperato compagno, che ha osservato attentamente i miei movimenti e che, ormai avvisato, scende tranquillamente senza strisciare di fare, come me, il salto dal muro di pietra che mi separa dall’asfalto.

    È mezzanotte passata e Selene risplende di un’aura davvero radiosa sul paesaggio lunare delle Cañadas del Teide, quasi prendendosi gioco delle nostre oscure paure. 

    A quest’ora non ci sono auto in circolazione, così, con l’Orsa Maggiore che fa da corona alla vetta più alta della Spagna, camminiamo sull’asfalto, chiacchierando, francamente sollevati per essere usciti da una situazione che ora sembra assurdamente drammatica.

    Siamo francamente grati all’universo per il detto che Dio stringe, stringe… ma non soffoca. 

    O almeno così è stato in questa occasione. 

    Come direbbe qualsiasi madre (di un tempo): che serva da lezione per la prossima volta.

    Bina Bianchini

     

    Articoli correlati