Fra pochi giorni si alzerà il sipario sul primo atto dell’elezione dell’uomo o della donna che per 4 anni guiderà il Paese ancora oggi più potente del mondo: il presidente degli Stati Uniti d’America.
Dico “il primo atto” perché, nonostante le semplificazioni mediatiche, è lontana dalla realtà la convinzione diffusa che la mattina del 6 novembre ci sveglieremo con il presidente già eletto: infatti per la complessità della procedura escogitata nel 1767 dai Padri Fondatori degli Stati Uniti – quando le distanze e le comunicazioni incomparabilmente più difficoltose rendevano impossibile il voto popolare diretto e immediato – martedì prossimo, come in tutte le elezioni precedenti, i cittadini statunitensi NON eleggeranno il presidente, bensì designeranno – in votazioni separate in ciascuno dei 50 Stati e nel Distretto di Columbia, sede della capitale federale Washington – i 538 “grandi elettori” dell’Electoral College (Comitato Elettorale), che solo quasi un mese e mezzo più tardi si riunirà per nominare l’uomo o la donna più influente del mondo.
Il numero dei delegati designati dai votanti martedì prossimo non sarà uguale in tutti gli Stati, ma varierà a seconda della popolazione di ciascuno, dai 54 della California ai 4 del Montana e dai 40 del Texas ai 3 del North Dakota, ma una particolarità saliente è che in tutti gli Stati, tranne il Maine e il Nebraska, il candidato vincente nella votazione popolare si aggiudicherà TUTTI i “grandi elettori” spettanti a quello Stato, fagocitando anche i delegati che in base ai voti ricevuti sarebbero spettati all’avversario: dunque ad esempio il candidato vincente in California, anche per un solo voto, si aggiudicherà TUTTI i 54 “grandi elettori” di quello Stato… un pesante svantaggio per Trump se, come probabile, là prevarranno i Democrats.
Dunque alcuni Stati più popolosi saranno più determinanti di altri e saranno cruciali i cosiddetti “Swing States”, cioè gli Stati in bilico tra i due contendenti, che per una manciata di voti in più o in meno conferiranno in blocco tutto il loro peso elettorale all’uno o all’altro candidato.
Potrebbe perfino accadere, com’è già accaduto un paio di volte, che per questo meccanismo antidemocratico risulti eletto presidente il candidato che in una semplice sommatoria dei voti popolari otterrebbe meno preferenze… inoltre, poiché nessuna legge stabilisce che per designare i delegati gli Stati debbano indire elezioni, come spesso avvenne nei primi decenni degli Stati Uniti i parlamenti dei vari Stati potrebbero, se lo volessero, legittimamente nominare i loro “grandi elettori” senza nemmeno interpellare i votanti.
Dunque sottolineo: contrariamente a quanto comunemente si crede, o si vuole far credere, il presidente statunitense NON è eletto direttamente dal popolo.
E dunque quali saranno i prossimi passaggi dell’elezione presidenziale?
Nei primi giorni di dicembre i governatori degli Stati ufficializzeranno i voti e i delegati ottenuti da ciascun candidato nei loro territori; se per qualche voto contestato non lo faranno la decisione sui delegati contesi spetterà al Congresso, cioè al parlamento federale.
Esaurito questo secondo passaggio, il lunedì successivo al secondo mercoledì di dicembre (che quest’anno coincide con il giorno 16, quindi quasi un mese e mezzo dopo il voto popolare) i “grandi elettori” di ciascuno Stato e del Distretto di Columbia si riuniranno nei rispettivi parlamenti per designare formalmente il presidente e il vicepresidente.
I 51 verbali di ciascuna di queste 51 votazioni separate saranno consegnati al presidente del Senato, che in una sessione congiunta del Congresso leggerà a voce alta in ordine alfabetico i cognomi dei “grandi elettori” di ciascuno dei 50 Stati e del Distretto di Columbia precisando per quale candidato ognuno di loro ha votato, e infine dichiarerà il risultato finale del conteggio; se nessun voto sarà contestato per iscritto, il presidente del Senato proclamerà i nomi del nuovo presidente e del suo vicepresidente.
Come si vede è una procedura elettorale complessa, lunga e tortuosamente “cartacea”, che dimostra impietosamente tutte le rughe dei suoi due secoli e mezzo abbondanti d’anzianità… ma cosa accadrebbe se il 16 dicembre né Harris né Trump conseguissero la maggioranza di almeno 270 “grandi elettori” su 538, se cioè i due candidati pareggiassero 269 a 269?
In questo caso la legge stabilisce che il presidente sarebbe eletto fra i tre candidati più votati, ma diversamente dalla votazione dei delegati del 16 dicembre ogni Stato esprimerebbe un solo voto, indipendentemente dalla sua popolazione; invece il vicepresidente sarebbe scelto dai senatori, quindi se in Senato fosse in maggioranza il partito avversario del presidente appena eletto, il vicepresidente potrebbe essere un suo antagonista politico.
Nella storia questa ballottaggio è avvenuto una sola volta nel 1824, quando non fu eletto Andrew Jackson – il più votato dai delegati degli Stati, che però non raggiunse la maggioranza assoluta – bensì John Quincy secondo classificato nella prima votazione, che sconfisse anche il terzo sfidante William Harris, omonimo ma non progenitore di Kamala.
Se invece Kamala Harris o Donald Trump otterranno la maggioranza assoluta di almeno 270 voti su 538, il 22 gennaio 2025 a mezzogiorno il nuovo presidente e il suo vicepresidente (Tim Walz per Harris, o James David Vance per Trump) giureranno ed entreranno in carica.
Chiudo quest’articolo con qualche considerazione personale su alcuni aspetti (arbitrariamente scelti da me) dei candidati e della politica interna ed estera statunitense sotto la nuova presidenza.
- Su Donald Trump pesa l’imminente verdetto definitivo, atteso il 26 novembre dopo vari rinvii, del processo (da lui definito “caccia alle streghe”) per i presunti pagamenti illeciti alla pornostar Stormy Daniels, ma contro il candidato repubblicano sono in corso vari appelli di precedenti condanne e altri processi penali, secondo i suoi sostenitori montati ad arte per eliminarlo politicamente. Le sentenze di questi appelli e processi, a loro volta probabilmente destinate a essere impugnate se avverse, potrebbero giungere dopo anni, ed è incerto se e come nel frattempo queste situazioni potrebbero nuocere a un presidente in carica ma indagato e condannato dalla magistratura. Immancabilmente se Trump sarà eletto gli avversari politici soffieranno con esiti imprevedibili sul fuoco di questa situazione.
* Per gli elettori di sinistra Kamala Harris possiede il doppio valore aggiunto di essere non solo donna – sarebbe la prima presidentessa degli Stati Uniti (wow!) – ma anche di sangue misto di ben due minoranze etniche (wow-wow!), essendo la madre originaria dell’India e il padre un nero giamaicano… anche se negli ultimi mesi la sua carnagione sembra essersi miracolosamente schiarita… e inoltre potrà tradurre in voti il sostegno della canterina e idolo pop Taylor Swift, che senza impicciarsi di politica internazionale ed economia – di cui forse non è esperta – ha semplicemente e fervidamente invitato gli adoratori delle sue canzonette a votare per Kamala.
* Un altro rompicapo per il nuovo presidente sarà il conflitto in Ucraina, perché gli ingentissimi aiuti in armi e denaro, ammanniti da Biden a Kiev in progressione crescente, sembrano non riuscire a piegare la Russia. Per Biden è impensabile innestare la marcia indietro dopo essere stato un partigiano tanto accanito dell’incondizionato sostegno all’Ucraina, già costato ai suoi concittadini decine di miliardi di dollari di sacrifici finiti a ingrassare i profitti dell’industria bellica USA, ma cosa farà Harris se eletta è un’incognita: potrebbe iniziare il disimpegno – e la necessità di lasciarle le mani libere potrebbe essere il motivo della finora mancata autorizzazione, da tempo lacrimosamente implorata da Zelensky, a usare i missili statunitensi a lunga gittata per colpire in profondità il territorio russo – o potrebbe continuare l’incaponito “sostegno a tutti i costi” perseguito da Biden. Di Trump invece sono noti sia l’avversione a questa guerra e l’antipatia per Zelensky, sia la pretesa di un cospicuo contributo finanziario e operativo alla NATO dagli alleati europei, finora comodamente adagiati sotto l’ombrello delle basi militari USA nei loro territori, però considerate da alcuni truppe di occupazione della colonia europea. Un ridotto impegno degli USA nella NATO potrebbe depositare davanti all’uscio di casa degli avventati e impreparati europei il candelotto di dinamite già acceso della Russia geograficamente contigua e col dente avvelenato per l’ostilità subita negli ultimi anni.
* Chiudo con una riflessione sulla frattura della società statunitense in due fazioni accanitamente avverse, non più protagoniste di un fecondo e stimolante dibattito di idee ma impegnate unicamente nella frenetica scalata al potere. Ritengo questa perniciosa radicalizzazione e contrapposizione frontale – i cui prodromi purtroppo già si notano anche in Spagna, Francia e Germania – una delle cause non secondarie del declino italiano; ma per gli Stati Uniti, dato il loro ruolo e peso nel mondo, la spaccatura è gravida di conseguenze planetarie, perché una società profondamente lacerata al suo interno inevitabilmente indebolisce il Paese verso l’esterno, cosicché probabilmente entro qualche decennio la Cina strapperà agli Stati Uniti il ruolo di potenza egemone mondiale. Ma un altro fattore rilevante della decadenza statunitense è la metamorfosi dell’ex patria delle libertà in brodo di coltura del nipotino demenzialmente degenerato del comunismo: la dittatura non più del proletariato ma dell’ideologicamente corretto, per cui qualsivoglia sparuta minoranza vociferante merita più considerazione dei diritti della maggioranza, alla quale i vocianti pretendono di imporre come dogmi preferenziali e dirimenti la loro appartenenza ad una qualche etnia, gruppuscolo politicante oppure sesso reale o fantasticato. Sempre più spesso si ascoltano assurdità storiche blaterate da idioti, che senza capirli criticamente pretendono di giudicare secondo i loro rozzi assiomi ideologici odierni gli eventi complessi di secoli fa, e in base a queste loro artificiose metafisiche presumono di reinventare il passato; o altri citrulli ci assordano con la sciocca idolatria, presuntuosamente considerata unica e indiscutibile Verità, della supremazia della finzione concettuale del “sentirsi” sulla realtà dell'”essere”, esigendo per soprammercato l’implacabile censura e ostracismo di chi per elementare logica ne dissente. La pervasiva prostituzione del più semplice buonsenso a spocchiose stupidaggini ideologiche è il segno inequivocabile che il cancro è già molto avanzato e che l’Impero statunitense, lo spirito della cui popolazione è già oggi corrotto e fiaccato – come già accaduto nella storia ad altri Imperi – dalla sua stessa potenza e ricchezza e da un lunghissimo periodo di altissimo benessere, è incamminato ad un graduale ma ineluttabile tramonto. Del resto se è vero, com’è vero, che in democrazia per accaparrarsi voti i politici parlano il linguaggio che essi presumono più gradito al popolo e adeguato alla sua capacità di comprensione, il dibattito televisivo tra Harris e Trump, infarcito di sciocchezze e vuoto di contenuti plausibili sui temi sostanziali dell’economia e della politica estera, è stato lo sconfortante specchio di una popolazione ormai maggioritariamente appiattita sul minimo comune denominatore dell’analfabetismo funzionale da cui non potrà uscire nulla di buono, né per gli Stati Uniti e nemmeno per l’Europa, culturalmente (ma non solo…!) asservita e assuefatta a scimmiottarli, ma purtroppo solo negli aspetti più deleteri.
Francesco D’Alessandro